Alle prime luci dell’alba di una giornata agostana, che si preannuncia splendida, partiamo, io e mio figlio Nicola, per Parma. Stigliano è ancora immersa nel sonno. Raggiunte e superate le ultime case nella zona più alta del paese, si apre, come d’incanto, un invisibile sipario e appare uno strepitoso fondale: sulla sinistra, in lontananza, il luccichio tremulo delle onde immote del Mare Jonio; al centro, in primo piano, le case di Aliano, perfettamente allineate sulla cresta della collina che domina la Valle del Sauro; sullo sfondo e verso destra le linee sfumate delle maestose montagne lucane. Uno scenario che lascia senza parole.
Nicola, per primo, interrompe l’incanto del silenzio mattutino. Sa bene dei ricordi di Aliano, che spesso si affacciano e fanno ressa nella mia mente. Moltissimi sono legati al mondo della scuola. Sono ricordi ben vivi e sempre emozionanti. Non potrebbe, d’altronde, essere altrimenti.
Già nel passato ha potuto constatare che amo soffermarmi, con un senso di sereno rimpianto, sui ventidue anni trascorsi nel paese che un tempo aveva ospitato Carlo Levi, quando l’artista torinese era stato condannato dal regime al confino per la sua attività antifascista. Sa che anche per questa ragione, oltre che per lo strepitoso paesaggio dei calanchi, il borgo fin dal primo momento esercitò su di me un fascino straordinario. Ultimo motivo di innamoramento, ma non per importanza, fu la malia di un ambiente ricco di una grande umanità. Ora, perciò apre il discorso con tono scherzoso, come spesso gli capita di fare:
«Caro prof, immagino quante volte hai potuto godere di uno spettacolo simile. Certo non all’alba … Scommetto anche che ricordi perfettamente ancora adesso i particolari del tuo primo incontro con Aliano, che è diventato il tuo paese di adozione».
«Io – dico rispondendo alle sollecitazioni di mio figlio, che mi aiuta a sospingere la navicella della memoria sull’onda quieta dei ricordi – arrivai ad Aliano nel 1975, in una luminosa e stupenda giornata di ottobre. La lasciai, in una calda e afosa giornata di giugno, nel 1997. Nel mezzo una lunga ed intensa esperienza professionale ed umana, esaltata da momenti, fatti e incontri significativi, che concorsero a disegnare la mia identità e la mia vita.
All’arrivo mi accolse il volto sorridente di za Fanuzza. L’avrei vista negli anni vestita perennemente di nero, come usavano un tempo in tutti i paesi lucani le donne che avevano perduto un parente stretto. Fortunata Colucci, così in realtà si chiamava, era rimasta vedova in giovane età e ora provvedeva a garantire una vita dignitosa alle due figlie con il suo lavoro di bidella. Di quella donna vestita a lutto, con un dolce e mesto sorriso perennemente disegnato sul volto color di cera che contrastava col nero dell’abbigliamento, ricordo bene l’atteggiamento discreto, gentile, sempre premuroso nei riguardi di tutti. Un atteggiamento naturalmente materno.
Qualche minuto dopo mi salutò con grande cordialità Giovanni Maiorana il farmacista, insegnante di matematica e fiduciario, che con grande cordialità mi accompagnò nella classe che mi era stata assegnata: la II B. Sì, hai capito bene, “B”, – ripeto a mio figlio che mi guarda interrogativo – perché, dovresti saperlo, all’epoca nella scuola media di Aliano c’era anche il corso “B”: si contavano, infatti, ben sei classi, con circa centodieci alunni!
Il farmacista, persona dinamica e intraprendente, lasciò presto l’insegnamento, ma in due anni riuscii a instaurare con lui rapporti cordiali, che sarebbero durati nel tempo. Andavo, perciò, a trovarlo spesso in farmacia o a casa. Mi piaceva discorrere con lui di molte cose, ma soprattutto lo invitavo a condividere i suoi ricordi legati al tempo in cui, lui tredicenne, aveva avuto modo di conoscere e di frequentare Carlo Levi.
Sempre il primo giorno di scuola, alla fine delle lezioni, venne a darmi il benvenuto il parroco don Pietro Dilenge, per tutti don Pierino. Lo ritrovavo, per una strana coincidenza, a distanza di sette anni, dopo averlo conosciuto casualmente in un’aula dell’Università di Napoli. Con lui, che fu collega di religione per pochissimo tempo, sarebbe iniziato fuori della scuola un fecondo sodalizio, che diede vita a diverse e interessanti iniziative culturali. Alcune, a dire il vero, nacquero tra lo scetticismo generale.
Videro la luce in quei primi anni di permanenza ad Aliano il periodico “La voce dei calanchi”, ancora oggi letto non solo dai pochi alianesi rimasti, ma dai moltissimi alianesi che hanno cercato fortuna in Italia e nel mondo. Molto significativa sarebbe risultata nel tempo anche l’Estemporanea di Pittura, che via via ha coinvolto la maggior parte degli Istituti d’Arte delle regioni meridionali. Nella fase iniziale importante fu la collaborazione dell’artista grassanese Pietro Benevento, prematuramente scomparso in un tragico incidente stradale. All’affermazione definitiva dell’evento, che ha superato la trentesima edizione e fa registrare ogni anno circa trecento partecipanti, diede un decisivo contributo il grande pittore materano Luigi Guerricchio.
Altrettanto importante fu l’istituzione del Premio “Carlo Levi”, per il quale generosamente si spese il meridionalista Gilberto Marselli. Discepolo e collaboratore di Manlio Rossi-Doria a Portici e amico di Carlo Levi, condivise l’idea di raccogliere le tesi di laurea sull’artista e scrittore torinese e di premiare le migliori. Volle sostenere così il progetto nella difficile fase dell’avvio per un debito di amore verso la Lucania-Basilicata. Non a caso lui amava definirsi campano di nascita ma lucano di adozione, anche per la fraterna amicizia con i due celebri Rocco tricaricesi, Mazzarone e Scotellaro. Nelle prime edizioni, prima di caratterizzarsi con l’Istituzione del Parco Letterario, il Premio fu assegnato a insigni personalità quali il regista Franco Rosi, l’imprenditore lucano Pasquale Vena, il pittore siciliano Piero Guccione, l’archeologo Dinu Adamesteanu.
Parlando di iniziative socio-culturali extrascolastiche, alle quali potei dare sin dal primo momento una convinta collaborazione, ricordo anche il sostegno all’attività del Circolo “Nicola Panevino”, che era stato istituito l’anno prima del mio arrivo. L’Associazione porta il nome di un eroico magistrato, nelle cui vene scorreva sangue alianese, essendo il padre Giambattista nato e vissuto nel paese dei calanchi, prima di trasferirsi a Carbone, un piccolo paese della provincia di Potenza.
Il magistrato Nicola Panevino, che nutriva sentimenti antifascisti, era entrato a fare parte del gruppo di “Giustizia e Libertà” e aveva condotto una strenua lotta contro il regime. Arrestato per una delazione e tradotto nelle carceri prima di Savona e poi di Marassi a Genova, fu fucilato dai tedeschi con altre diciannove persone vicino al cimitero di Cravasco il 23 marzo 1945. Solo due giorni prima, ancora fiducioso che non accadesse l’irreparabile, in prossimità della domenica di Pasqua aveva scritto una struggente lettera alla moglie Elena, alla quale raccomandava di prendersi cura in ogni caso della piccola figlia Gabriella.
È bello e consolante constatare che alcune di quelle iniziative, nate oltre quaranta anni fa, hanno resistito all’usura del tempo, come di rado capita dalle nostre parti. Sai bene, infatti, che nei nostri paesi per molte ragioni predominano l’effimero e l’evanescente, soprattutto nell’ambito delle attività sociali e culturali».
Nicola interrompe per un momento l’appassionata narrazione paterna. Conferma che sa bene dei suoi sentimenti di affetto e di stima per alcuni colleghi: Felice Calvello e Filomena Castiello, scomparsi purtroppo prematuramente; Teresa Zamparella, con la quale ha condiviso l’esperienza degli studi classici all’Università di Napoli; l’ingegnere Renato Molfese, che egli ha sempre indicato come un signore garbato e simpatico, un vero gentiluomo di stampo antico; il siciliano Liborio Giunta e Leonardo Tucci, amabili compagni di viaggio per molti anni. Alla fine chiede, ironicamente, se per caso ci siano altri ricordi del “primo giorno di scuola” ad Aliano. E, gettata l’esca, si predispone all’ascolto.
«Ti parrà strano, – gli spiego – ma del primo giorno di scuola ad Aliano mi è rimasto ben impresso nella memoria un inimmaginabile particolare. È un particolare olfattivo, vale a dire l’afrore proveniente da una vicina mascalcìa, contigua al vecchio palazzo Langone, che allora ospitava la scuola media. Infatti, là, nella strada, Antonio Grimaldi, noto con il soprannome di Tallone, stava ferrando una superba giumenta.
Ma del primo giorno sopravvivono soprattutto frammenti sparsi di altre immagini meno stravaganti ma indimenticabili. Come è ovvio, esse riguardano innanzi tutto gli alunni. Una ventina in tutto, alcuni dei quali venivano dalla frazione di Alianello o dalla campagna. Li ricordo bene tutti, e non solo perché la memoria degli anziani è presbite come la loro vista. Lavorammo bene insieme per due anni, stabilendo un rapporto umano significativo. Alcuni di loro li ho rivisti spesso, altri non mi è capitato più di rivederli, perché andarono presto via da Aliano, emigrando in Germania o in Svizzera per trovare lavoro.
Comprendi bene, dunque, la sorpresa e l’emozione provate proprio qualche giorno fa, quando ho ricevuto inaspettatamente dopo tantissimi anni un cordiale messaggio di saluti da Luigi, un ex alunno di Alianello, che, ancora ragazzo, andò a cercare lavoro in Germania e tuttora vive a Brunswick, una città tedesca della Bassa Sassonia. Mi vengono le vertigini, se penso che è trascorso poco meno di mezzo secolo e nello stesso tempo mi sorprendo a considerare quale sia stato il futuro imprevisto di tanti alunni che la sorte ha portato in giro per l’Italia e per il mondo».
Nicola interviene e dice la sua su quest’ultima considerazione, dichiarandosi assolutamente d’accordo sulla imprevedibilità della vita di ciascuno di noi. Ma non può fare a meno di chiedere quando e come nacquero, invece, le prime relazioni al di fuori dall’ambiente scolastico, che egli immagina essere state tante e per qualche verso anche importanti.
«È vero, – rispondo – i rapporti esterni furono molto importanti e mi aiutarono ad inserirmi nella vita della comunità alianese. Iniziarono subito, già il giorno successivo al mio arrivo, per pura casualità. Nell’ora libera dalle lezioni, la cosiddetta ora-buca, mentre mi crogiolavo al sole davanti alla scuola, mi ritrovai a parlare con un signore, che avevo già notato il giorno prima andare e venire, sempre trafelato. Era Minguccio il sarto.
Aveva proprio vicino all’ingresso della scuola, la sua bottega, dove al mattino appariva e scompariva, come se fosse tarantolato. Seppi che, prima di prendere in mano ago e filo, lui, Domenico Sarli, divenuto provetto infermiere sotto le armi, girava per le case a fare le iniezioni agli ammalati. Un’assistenza puntuale ed efficiente … che manco nel migliore degli ospedali …!
Minguccio si rivelò subito affabile nella nostra prima chiacchierata avvenuta mentre cuciva sull’uscio della bottega, godendosi anch’egli la bella giornata di sole. A quella prima conversazione ne seguirono molte altre. Anche d’inverno, quando lo vedevo apparire con un inconfondibile colbacco nero calato sulla fronte, che sembrava essere tutt’uno con i grossi occhiali, pur essi neri, da miope, e con un eterno indecifrabile sorriso, che sembrava sfuggirgli di soppiatto dalle labbra socchiuse. Ne fui stregato: era davvero una persona simpaticissima e uno straordinario affabulatore.