Dopo la lettura dei miei ultimi racconti tanti amici sparsi per la Penisola mi hanno fatto pervenire messaggi di calda simpatia. Da Milano e Matera, da Padova e Conversano, dal Vulture e dalla Val Borbera. Da Roma Pierfilippo scherzosamente mi domandava in stretto dialetto stiglianese: “Tənìss n’àtə pékk də tìmp ndà la pènn?”. Avanzava in maniera garbata la stessa richiesta espressa con toni perentori da Giovanni che, scrivendo dalla patria del Sommo Poeta, doverosamente in lingua mi intimava: “Non rifiutarti di continuare … a presto per leggerti ancora!”.
Sono stato invogliato, dunque, ad aggiungere almeno un altro racconto su pezzi di vita e di storia stiglianese, scegliendo di partire, non casualmente, dal fatidico anno 1961. Fu un anno particolare per me e per molti miei compagni, perché rappresentò uno snodo importante nel nostro percorso esistenziale. Ma fu un anno di svolta nella storia di tutta la comunità.
Per me e per gran parte dei miei coetanei giusto sessant’anni fa arrivò il momento di lasciare per la prima volta Stigliano. Avevamo finito la terza media e, non essendoci in loco le scuole superiori, fu giocoforza allontanarsi per continuare gli studi. Quasi tutti si dispersero fra Lagonegro, Potenza, Matera, Taranto e Salerno. Una dolorosa diaspora coinvolse decine di noi ragazzi, che per dieci anni avevamo vissuto insieme i momenti belli e brutti dell’infanzia e della prima adolescenza.
All’asilo infantile avevamo bevuto insieme il latte, che le suore ci porgevano in scrostate tazze metalliche, e ingurgitato da scodelle di acciaio il brodo, del cui odore nauseabondo a lungo conservammo il ricordo. Salutata suor Pia, in prima e seconda elementare nello storico Palazzo Mendaia sopportammo l’immane fatica di impossessarci dei primi rudimenti del sapere, riempiendo pagine interminabili di aste e sillabando in maniera stentata sotto la guida severa di don Alfredo Salomone.
Dopo la sua partenza per Napoli avemmo maestro l’anziano don Giuliano Cacciatore, la cui lunga e apprezzata attività d’insegnante era ormai agli sgoccioli. Con lui scoprimmo l’esistenza del libro sussidiario, che ci apriva a nuovi mondi. Con lui guardammo desolatamente i fogli bianchi, che attendevano impazienti, e spesso invano, di essere vergati, quando fummo chiamati a svolgere tracce astruse di temi, del tipo “Commenta il proverbio contadino: Sotto la pioggia c’è la fame, sotto la neve c’è il pane!”.
Affrontati e superati gli esami di licenza elementare e di ammissione, facemmo ingresso nella scuola media, non ancora obbligatoria. Iniziammo ad avvertire i primi segni dell’adolescenza e a sentirci studenti a tutti gli effetti. Per tre anni c’impegnammo nello studio di materie nuove e prendemmo confidenza con l’Iliade e l’Odissea, il De bello gallico e i poeti francesi.
Così, tra gli impegni scolastici e i giochi per strada, giunse in men che non si dica l’ora di separarsi dalla famiglia e dal paese. Soffrimmo per la prima volta il senso dello spaesamento e da quel momento iniziammo a vivere con pienezza le “feste del ritorno” a Natale e nelle vacanze estive.
Io, allora, mi preparai a partire per Empoli, dove sarei stato ospite dell’Istituto Calasanzio dei Padri Scolopi. Mia madre, come tante altre mamme, fu indaffarata a prepararmi il corredo, acquistando tutto l’occorrente nel ben fornito negozio di zio Titta Lacetera.
Per la mia prima partenza, dovendo ottemperare alle istruzioni pervenute dal Collegio, mi furono confezionati anche due bei vestiti da mastro Giovanni Toscano. Quando andai per l’ultima prova alle case popolari del Fascio, dove abitava e lavorava, il buon sarto, soddisfatto di sé, mi disse con legittimo orgoglio: “Pàrə pròpə nə spokkəncìdd!”. E a me, che sembravo a suo dire un figurino, augurò di cuore buona fortuna.
Peccato, però, che quel poco che mi fu dato in sorte di crescere, lo crebbi nel breve giro di un anno. Dopo il quarto ginnasio fui costretto, perciò, a rinunciare a indossare i due vestiti quasi nuovi, che non riuscivano più a contenermi. Essendo per fortuna il tempo della morigeratezza e della cultura del risparmio, essi furono destinati senza problemi a mio fratello Mario e a mio cugino Franco, che erano più piccoli di me.
Mio zio Oronzo, a sua volta, rispettando meticolosamente le misure prescritte, non tardò a prepararmi una bella cassetta lucida, destinata ad essere sistemata sul comodino e a contenere i miei pochi importanti oggetti personali, meritevoli di essere custoditi. Quando ogni cosa fu pronta, debitamente contrassegnata dalla matricola “A. C. 57”, tutto fu spedito per posta e a fine settembre, accompagnato da mia madre e da mio cugino Vito Capalbi, partii per la grande avventura.
Da allora incominciai ad assaporare il pane della nostalgia, che non smisi più di mangiare, neppure quando tornai a vivere a Stigliano. Nei paesi segnati dall’emigrazione, infatti, la nostalgia non risparmia nessuno e finisce per contagiare tutti. Tanto chi parte quanto chi resta. Infatti, sia le partenze che, per dirla con un termine caro al sociologo Vito Teti, le “restanze”, provocano sempre e comunque lacerazioni e dispersioni, tristezza e rimpianti.
Dopo Empoli, vissi a Potenza e a Napoli, per completare gli studi; fui poi ad Ancona, Falconara, Fano, Pesaro e Roma, per la mia brillante carriera militare, che mi vide arruolato come recluta e congedato con i gradi di soldato semplice. Trascorsi quindici interminabili mesi di noia accidiosa. Unico raggio di sole nel buio fitto di quei giorni insulsi fu la preziosa amicizia, protrattasi ben oltre il periodo del servizio militare, con Luigi Labbate, un ingegnere nativo di Ugento ma allora già residente a Padova con la moglie Maria Grazia e il figlioletto Antonio.
Al caro e simpaticissimo amico, che, allo scopo di sdrammatizzare, più volte al giorno mi chiedeva come andasse, puntualmente rispondevo, l’aria incerta fra tristezza e abulia, con le parole del Poeta mio conterraneo: “Caro Gigi, strenua nos exercet inertia, una faticosa inattività ci tormenta”. Alle mie parole lui, che amava stuzzicarmi sostenendo che il saggio Orazio fosse più pugliese che lucano e che all’aglianico avrebbe preferito il robusto vino salentino, replicava col suo abituale sorriso, aperto e incoraggiante. Gigi, che purtroppo troppo presto ci ha lasciati, aveva una rara capacità di trovare sempre le parole giuste per rasserenare e ripeteva che il peggio sarebbe presto passato e sarebbero arrivati tempi migliori. Aveva ragione. Seppure a fatica, arrivò la sospirata alba di tempi nuovi e finalmente, il 3 settembre 1973, rientrai a Stigliano.
Ritornavo, in effetti, a casa dopo dodici anni di spaesamento. Ritrovai pochi dei miei amici di un tempo, perché alcuni per scelta, altri per necessità vivevano lontano. Li rividi, almeno per un po’ di anni, solo a Natale o in estate. Qualcuno, addirittura, scomparve dai radar dopo gli anni della scuola media. Potei, quindi, constatare subito che, se io non ero più lo stesso, anche il contesto era mutato. Ero ormai una persona adulta tornata a vivere in un paese che non era quello che avevo lasciato da ragazzo.
Stigliano, infatti, a partire proprio dall’anno 1961 conobbe la seconda grande ondata migratoria dopo quella del primo decennio del secolo e in tanti andarono via, per cercare lavoro nel Nord dell’Italia, o in Germania e in Svizzera. L’esodo biblico, comunque, sembrava avere attenuato, ma non spento la vitalità della comunità, perché alcuni eventi positivi si erano intanto verificati.
Dopo la scuola media istituita nel 1957, che per alcuni anni fu sezione staccata di Pisticci, nei primi anni Sessanta videro la luce gli Istituti Magistrale e Professionali Maschile e Femminile, nati come sezioni staccate rispettivamente delle scuole “Tommaso Stigliani”, “Leonardo da Vinci” e “Isabella Morra” di Matera.
Fu in quello stesso periodo che Stigliano poté dotarsi anche di una struttura socio-sanitaria importante. Fortemente voluto da Salvatore Peragine, Presidente dell’Amministrazione Provinciale di Matera, nel 1961, cinque anni dopo l’inizio dei lavori, fu completato l’ospedale civile, che entrò in funzione il 3 gennaio del nuovo anno. Grazie a uno stanziamento di trentotto milioni di lire era nato come infermeria con trentatré posti-letto sull’esempio di quanto era stato realizzato a Tricarico alcuni anni prima nei locali del Vescovado per interessamento di Monsignor Raffaello Delle Nocche, Rocco Scotellaro e Rocco Mazzarone.
I due ospedali offrirono un servizio sanitario di grande qualità a favore delle popolazioni delle aree interne, perché poterono contare su professionalità di assoluto valore.
A Tricarico nei primi anni operò il professore tricaricese Pasquale Gagliardi La Gala, formatosi alla scuola di Dogliotti e libero docente all’Università di Torino, che nel 1952 fu sostituito da un giovane chirurgo romano, Guido Barbieri Hermitte, scelto tra gli allievi di Valdoni grazie alla solerzia del professor Mazzarone. A Stigliano, invece, diedero lustro all’ospedale civile, tra gli altri, chirurghi di vaglia come il professor Renato Trotta, Giuseppe Laraia, Franco Maratia e eccellenti medici come Paganelli e Andreoli. Considerato il luminoso passato, oggi fa ancora più male vedere l’imponente struttura ridotta a un inservibile guscio vuoto!
Nel frattempo, in Val Basento, in seguito alla scoperta di un importante giacimento metanifero, si era avviato un vasto programma d’industrializzazione, quando nell’estate del 1961 vi era stata la posa della prima pietra alla presenza di Enrico Mattei, Presidente dell’ENI, di Amintore Fanfani, Presidente del Consiglio e di Emilio Colombo, Ministro dell’Industria. Ciò consentì di trovare un lavoro anche ad alcuni tecnici e operai stiglianesi, che raggiungevano ogni giorno il complesso petrolchimico dell’ANIC, dove in poco tempo erano state occupate circa 7000 persone.
Nonostante queste novità positive, la popolazione di Stigliano, che proprio nel 1961 aveva toccato il suo apice con 9925 abitanti, si ridusse in un decennio di circa 1800 unità. Nello stesso decennio, al contrario, Cardano al Campo, piccolo comune del Varesotto, vide crescere la sua popolazione da 6462 a 10143 abitanti, di cui, grazie alla catena di richiamo, più di mille erano stiglianesi.
A Stigliano era iniziata, insomma, un’emorragia demografica che non si sarebbe mai più arrestata. Nel corpo di una comunità ancora vitale e dinamica si nascondevano gli agenti patogeni di una decadenza esiziale, che non avrebbe impiegato molto tempo a manifestarsi in tutta la sua gravità.