Raffaele Ciriello. I bambini e la guerra. Di Gennaro Grimolizzi. “Quindici anni. Già quindici anni dall’uccisione in Cisgiordania del fotoreporter Raffaele Ciriello. Sembra ieri. Il 13 marzo 2002 nelle strade di Ramallah si fronteggiano soldati israeliani e miliziani palestinesi. I giornalisti delle maggiori testate internazionali coprono la seconda Intifada, scoppiata da qualche settimana.
Anche Ascanio Raffaele Ciriello è nei Territori palestinesi. Alle 10.30, le 9.30 italiane, Ciriello è nei pressi di Piazza Dawar Al Manar con il giornalista Rai Amedeo Ricucci e l’operatore Norberto Sanna. Stare sulla notizia significa documentare a distanza ravvicinata gli scontri armati, in certi casi spingersi fino ai limiti del proibito e volerli oltrepassare, rischiare la vita. Il tutto in nome dell’informazione, la più obiettiva possibile.
La piazza di Ramallah, dopo alcuni minuti di silenzio si infiamma improvvisamente. I miliziani palestinesi, situati in una via secondaria che conduce alla piazza esplodono colpi di kalashnikov contro un tank israeliano. Ciriello, con addosso una macchina fotografica per istantanee e un telecamera palmare riprende tutto. Sporgendosi da una delle strade che si affaccia su Piazza Al Manar viene inquadrato da un soldato israeliano sulla torretta del carro armato.
È un attimo: la mitragliatrice fa fuoco. Ciriello si accascia sul selciato; le immagini della piccola telecamera si fanno subito confuse. Si tratta della sua ultima testimonianza giornalistica. Due giovani palestinesi trascinano con forza il fotografo al riparo dalle mitragliate israeliane e lo trasportano in auto in ospedale. L’addome, lo stomaco e i reni sono però devastati dalla raffica di mitra. Raffaele muore alle 12.30. Aveva 42 anni.
Somalia, Sierra Leone, Ruanda, Afghanistan, Kosovo, Territori palestinesi sono state alcune delle “zone calde” visitate e fatte conoscere da Ciriello con le sue fotografie, tuttora visibili sul sito Postcards from the hell (www.raffaeleciriello.com/site/index.html). Indimenticabili gli scatti che lo ritraggono con Maria Grazia Cutuli, durante un viaggio in aereo, in un momento di spensierata tranquillità. Raffaele Ciriello nacque a Venosa, in provincia di Potenza, e si trasferì, piccolissimo, con la famiglia a Milano, città adottiva che gli diede la fama di fotoreporter di guerra anche se i primi passi nel mondo del fotogiornalismo li mosse seguendo negli anni Novanta la Parigi-Dakar.
Ciriello era anche un medico chirurgo e non abbandonò mai la sua professione. Spesso, nei posti martoriati dalle guerre, raggiunti per motivi di lavoro, si dedicava a curare persone ferite. Oltre alla bravura con la macchina fotografia, chi lo ha conosciuto bene, come Amedeo Ricucci, ricorda la sua grande umanità.
Secondo Ugo Tramballi, giornalista del Sole 24 Ore, nel 2002 in Israele e Territori Palestinesi, Ciriello ha commesso un errore: è spuntato dall’angolo della strada neanche un minuto dopo gli spari esplosi dallo stesso punto da un miliziano del Fatah. All’indomani dell’uccisione a Ramallah, i familiari di Ciriello e alcuni parlamentari chiesero una commissione d’inchiesta per mettere Israele di fronte alle proprie responsabilità.
Anche la procura di Milano aprì un fascicolo, ma il Governo israeliano si rifiutò sempre di collaborare. Nel 2010 il tribunale civile di Milano (decima sezione) ha riconosciuto Ciriello “vittima del terrorismo internazionale“ con i conseguenti benefici di legge in favore della moglie, Paola Navilli, e della figlia Carolina (aveva diciotto mesi alla morte del padre). Tale riconoscimento è stato una novità assoluta per quanto riguarda l’attività dei giornalisti free lance.
Ciriello si trovava nei Territori palestinesi con un accredito del Corriere della Sera, allora diretto da Ferruccio De Bortoli. «Raffaele – dice De Bortoli – è stato un mio giornalista. È morto adempiendo il suo dovere anche se io non ho mai avuto il piacere di conoscerlo di persona. Ma Cirello è stato pure uno straordinario esempio di medico. Dai racconti del padre e della moglie ho potuto apprezzare la sua umanità e professionalità. È stato un testimone di civiltà con grande senso del dovere e grande attenzione verso i luoghi martoriati dalle guerre, fatti conoscere con le sue fotografie. Un esempio per tanti giornalisti che tuttora si impegnano in zone calde del mondo».
Fausto Biloslavo, in questi giorni in Iraq, ha lavorato per molti anni con Ciriello in varie parti del mondo. «In Kosovo – ricorda Biloslavo -, durante la fuga verso l’Albania con i guerriglieri dell’ Uck siamo finiti assieme in un imboscata dei serbi con i proiettili che si conficcavano davanti ai piedi. In Afghanistan avanzavamo con i mujaheddin anti talebani verso Kabul dopo l’11 settembre. In Bosnia siamo rimasti attoniti davanti alle fosse comuni di Srebrenica.
Non mi sembra vero che siano passati già quindici anni dalla scomparsa di Lello, che rimproveravo durante i reportage perché mangiava poco o gli proibivo di scattarmi una foto, convinto che portasse sfortuna. Ed invece è toccato a lui riprendere l’ultima immagine, prima di venir falciato.
Mi rendo conto che il tempo è passato quando incontro sua moglie Paola e la figlia Carolina, che tenevo in braccio piccolina quando il papà è morto in prima linea. Adesso è una bella ragazza con il fidanzatino.
Raffaele, come Almerigo Grilz e Maria Grazia Cutuli, compagni d’avventura che hanno pagato con la vita la passione di raccontare le guerre, sono sempre al mio fianco ogni volta che parto e mi caccio in situazioni pericolose. Anche adesso durante il reportage sulla liberazione di Mosul. Mi piace pensare che siano i miei angeli custodi in battaglia. Sicuramente sono pezzi della mia vita che custodirò per sempre nei ricordi e nel cuore».
Nel 2002 l’Ambasciatore Giulio Terzi era a capo della rappresentanza diplomatica italiana in Israele. «Sono passati quindici anni – afferma l’ex ministro degli Esteri – da quel tragico 13 Marzo a Ramallah quando Raffaele Ciriello si è sacrificato in nome di un ideale e una passione che da tempo avevano dato un senso ancor più profondo alla sua esistenza, allo sconfinato amore per la sua famiglia, al grande talento di fotoreporter e di giornalista.
Raffaele era animato dalla forza impetuosa della verità e della conoscenza. La sua passione di testimoniare, documentare, far comprendere al pubblico e a chi riveste ruoli politici, l’assoluta necessità della “conoscenza” si è trasmessa identica e irresistibile a quanti sentono oggi l’impegno di affermarla, e continueranno a lottare perché la gente sappia, i misteri siano spazzati via, la disinformazione e le coperture di comodo vengano svelate, i governanti siano “accountable”.
Quel periodo di “Seconda Intifada” nel marzo 2002 precedeva di poco un’operazione militare in Iraq concepita e attuata nella più pericolosa negazione della “conoscenza”. Solo dopo molti anni il Rapporto Chilcot lo documentava in tutta la sua devastante portata, sotto i riflettori dell’opinione pubblica, e della “accountability” di un’intera classe politica e amministrativa.
Quel giorno, tra il fuoco di fazioni armate e terroristiche palestinesi e le Forze Armate Israeliane nella West Bank un coraggioso reporter del Corriere della Sera stava denunciando la violenza di scontri sanguinosi con immagini che in altre circostanze aveva riservato alle angosce sì, ma anche alle speranze sui volti dei bambini in guerre assurde, generate come mostri sorti dall’oscurità del potere e dalla negazione dello Stato di Diritto.
Non è mai passata una ricorrenza dalla scomparsa di Raffaele senza che tornassi a pensare a come si sarebbe potuto e dovuto evitarla, all’assurdo della violenza e della guerra. E con il trascorrere degli anni si è radicato sempre profondo il convincimento che Raffaele, come altri, e per molti versi più di altri, sia stato protagonista eroico dell’immensa sfida che abbiamo tutti dinanzi, ma che troppo spesso dimentichiamo o evitiamo di affrontare,nella conoscenza della Verità.
La Memoria coltivata dai suoi famigliari e dai moltissimi che onorano Raffaele Ciriello in questo quindicennio dalla scomparsa con iniziative culturali encomiabili ci rassicurano, soprattutto, che l’affermazione del diritto alla Conoscenza è sempre più sentita e voluta».
Un altro fotografo, Francesco Cito, sottolinea l’amicizia con Ciriello, conosciuto nel 1994 nei Territori Palestinesi. «Mi trovavo – dice Cito – con Maria Grazia Cutuli in quel periodo giornalista di Epoca. Eravamo ad Hebron. Vidi un fotografo ben vestito e di bell’aspetto. Gli dissi in inglese che si trovava in un posto molto pericoloso. Iniziammo a conversare in inglese ma poi scoprimmo di essere entrambi italiani.
Da allora diventammo amici e lo misi in contatto con Maria Grazia Cutuli con la quale coprì altre zone di guerra. Raffaele si distingueva per la sua serietà e bravura». Secondo Cito, con la morte di Raffaele Ciriello si è chiusa una pagina del giornalismo. «Il nostro lavoro – commenta il decano dei fotoreporter – è cambiato tantissimo, in quanto non esiste più un interesse della stampa verso la fotografia.
Il rischio è che ci siano solo l’immagine estetizzante e non più il foto-racconto. Inoltre, non si vive più la vita del giornale. È difficile vedere un fotoreporter frequentare una redazione giornalistica. Il lavoro degli editori è del tutto cambiato e le regole del gioco sono dettate dagli inserzionisti. Gli editori puri sono scomparsi dal mercato per fare spazi a gruppi finanziari con interessi nell’editoria”.
Una lenta caduta, a detta di Cito, iniziato già nei primi anni Novanta con la Guerra del Golfo. “Ma non cadiamo neppure – aggiunge – nell’errore di considerare internet coma la causa del declino e della crisi. È calata la qualità dei contenuti giornalistici ed una testata che perde un lettore non lo recupera più».
Daniele Biacchessi, scrittore e caporedattore di Radio 24, ha scritto negli anni scorsi un fortunato libro, “Passione Reporter” (Chairelettere), dedicato ai giornalisti italiani uccisi mentre svolgevano il loro lavoro. Un capitolo è dedicato proprio a Lello Ciriello. «Raffaele – evidenzia Biacchessi – lascia tra i migliori scatti del fotogiornalismo del mondo, un comportamento etico, la ricerca continua e spasmodica della verità che sta dietro alle menzogne del potere».
Biacchessi è convinto che, al di là della normale evoluzione delle tecnologie, l’idea originaria del fotogiornalismo non sia mutata: «Raffaele è stato colpito da un cecchino israeliano mentre a Ramallah, con una minuscola video camera stava riprendendo gli scontri armati tra israeliani e palestinesi. Oggi in molte aree del mondo i giornalisti continuano ad essere uccisi perché la loro testimonianza risulta non gradita al potere».
L’uccisione di “Lello” non ha trovato, a quindici anni di distanza, giustizia. Non usa mezzi termini Biacchessi: «Una vergogna». «Il problema – continua il caporedattore di Radio24 – non è stato solo la mancanza di risposte da parte di Israele, soprattutto la assoluta noncuranza dei vari governi italiani di centrodestra e centrosinistra che non hanno fatto nulla per chiedere spiegazioni sul perché dell’uccisione di un giornalista.
Forse perché Raffaele era un freelance, forse perché chi lavora in quei luoghi si spinge oltre quella sorta di borderline che separa la vita dalla morte. Raffaele è stato ucciso in modo preciso, non è stato scambiato per un palestinese».
Gennaro Grimolizzi