Settant’anni fa l’organizzazione delle piccole attività commerciali a Stigliano era tale da risultare incomprensibile a chi oggi abita e conosce solo il mondo di Amazon. Sembra di essere in un’era giurassica rispetto all’attuale, che ha sconvolto, se non cancellato, le categorie dello spazio e del tempo.
Il rifornimento dei piccoli negozi avveniva sostanzialmente in due modi. S’inoltravano direttamente gli ordini alle varie ditte, che facevano pervenire la merce da Bari o da Napoli attraverso i corrieri locali di Peragine, Lucarelli, Sarubbi e altri. Altrimenti, gli ordini si facevano tramite i rappresentanti di commercio e la merce arrivava per posta. Oppure per treno fino allo scalo di Grassano, e di qui a destinazione tramite un corriere che si chiamava Stefano Maria.
Erano proprio i rappresentanti di commercio che si lamentavano per il fatto che Stigliano, tranne quella di “Fiorano”, non avesse altre strutture ricettive e li costringesse a pernottare addirittura nel piccolo albergo di Cutolo a Tricarico. Di qui dovevano arrivare nei paesi interni della montagna materana e non era certo una traversata piacevole, se si tiene conto dei mezzi utilizzati e delle condizioni delle strade a quei tempi.
Alcuni di loro, perciò, incoraggiarono mio padre, che stava in quel periodo ristrutturando la sua abitazione, a destinare il piano superiore ad albergo. Nacque così in Largo Marconi, di fronte alla bella cappella dei Sacri Cuori, la “Locanda Colangelo”. Inizialmente aveva solo quattro stanze capaci di ospitare otto persone, ma ben presto si aggiunsero altre tre stanze e la struttura ebbe gli altri requisiti necessari per ottenere dall’APT di Matera la qualifica di “Albergo”. Anche dopo la nascita di altre due locande e dell’Hotel Turistico, che dopo un avvio promettente ebbe una vita travagliata e una fine ingloriosa, l’Albergo della “Villa” ebbe modo di prosperare.
Grazie soprattutto alla “signora Ippolita”. Così chiamavano tutti con stima e cordialità mia madre. Su di lei ricadde il peso della gestione. Fin dall’inizio si avvalse della collaborazione di una donna di servizio a tempo pieno, la cara zia Nicolina, che divenne subito una persona di famiglia, e di altre donne, che a turno erano assunte in maniera provvisoria. Oltre che della pulizia delle stanze, esse si occupavano di lavare ogni giorno lenzuola e biancheria varia, che venivano poi stese ad asciugare nell’ampio spazio della mansarda e nelle due terrazze di cui questa era stata appositamente dotata. Era un lavoro faticoso in quel tempo in cui non era ancora in uso la lavatrice.
Mia madre, invece, per tutto il mattino, dopo aver dato una mano nel negozio, si preoccupava di cucinare per i due o tre clienti che facevano pensione completa. Instancabile, chiudeva la lunga e intensa giornata con l’ultima fatica quotidiana, che lei considerava quasi riposante. Stirava per ore e ore, mentre le tenevano compagnia, conversando serenamente, l’amica del cuore Maria Lucia e la cognata Matuzza. Con loro due, sorelle di fatto, e con Carmela e Laura, sorelle di sangue, viveva in perfetta simbiosi e finì per creare un’unica grande meravigliosa famiglia. Fu, la famiglia, un’ancora salda per tutti, specie nei momenti difficili e dolorosi, che purtroppo non mancarono.
Non passò molto tempo e, per rispondere alle esigenze dei clienti dell’albergo, fu necessario installare un telefono e acquistare un televisore, due oggetti ancora inesistenti nelle private abitazioni. Il primo, un apparecchio nero luccicante col numero 61, fu appeso al muro della saletta da pranzo, che in un angolo accolse su un elegante carrello una monumentale Voxson 24 pollici. Per anni fecero parte dell’arredo della casa e, se avessero potuto parlare, ne avrebbero avuto di storie da raccontare. Ne avevano sentite tante. Belle e brutte, tristi e divertenti, esse potrebbero diventare materia interessante di un romanzo. Ma ci vorrebbe uno scrittore vero. Io ricorderò alla buona solo poche persone e pochi episodi, che fanno percepire anche la singolare vita del vicinato, quando eravamo povera gente.
Si era all’inizio dell’estate, forse nel 1961, ed era in programma la serata finale di un’importante manifestazione canora napoletana, che prevedeva la designazione dei vincitori attraverso una votazione popolare abbinata alle schedine dell’Enalotto. Erano in gara i cantanti più celebri del momento, Sergio Bruni ed Aurelio Fierro, Nino Taranto e Luciano Tajoli, Milva e Nilla Pizzi. Era al suo debutto, come presentatore dal Teatro Mediterraneo di Napoli, un giovane ancora poco noto, Pippo Baudo, che sarebbe presto diventato un’icona della televisione italiana.
Alcune ragazze della “Villa”, informate dell’evento dai ripetuti annunci radiofonici, erano smaniose di assistere allo spettacolo televisivo e chiesero ospitalità a mia madre. Mia madre, che non sapeva mai dire di no, acconsentì alle numerose richieste. Ma, quando ne parlò a pranzo, si rese conto di averla fatta grossa, perché sarebbe stato impossibile accogliere in casa tante persone. D’altra parte, fare delle scelte era impossibile, perché avrebbe significato fare ingiuste discriminazioni e generare comprensibili dispiacenze. Era per questo mortificata, ma mio padre non si perse d’animo.
Nel pomeriggio si premurò di sistemare il carrello con la televisione sul pianerottolo esterno e con pazienza fece le “prove tecniche” di trasmissione. A sera tutto era pronto. Ai giovani si accodarono, incuriosite, molte persone anziane. I più si portarono la sedia da casa e si sistemarono nello spazio antistante l’Albergo. Altri presero posto sulla lunga scala delle case vicine. In tutto una cinquantina di persone. Sembrava di essere in una improvvisata ma accogliente cavea di teatro.
Verso mezzanotte gli spettatori se ne andarono a dormire beati, soddisfatti di aver assistito sotto le stelle a uno straordinario spettacolo fuori programma. I sogni di non poche ragazze forse furono anche popolati dall’immagine seducente di Mario Trevi, il giovane cantante che era stato la rivelazione della serata con la canzone “Mare verde”.
Non sogni ma incubi, invece, popolarono qualche anno dopo il sonno di molti, per quella maledetta giornata che aveva vista l’Italia estromessa dai mondiali di calcio d’Inghilterra. In quella occasione, continuando a mancare ancora la televisione nella maggior parte delle case, il nostro televisore fu trasferito nella mansarda, per permettere di vedere le partite ad un gruppo di almeno venti persone. Si era tutti convinti che l’Italia, potendo contare su una squadra molto forte, sarebbe stata protagonista di un grande mondiale. Ma la sfortuna e un demonio che si nascose nelle vesti di Pak Doo-ik, un dentista nordcoreano, fecero svanire a Middlesbrough tutti i sogni di gloria.
Testimone muto di tante piccole e interessanti storie fu anche il telefono. Oltre ai clienti dell’albergo se ne servirono molte persone del vicinato per comunicare con i loro parenti, che da poco erano emigrati nelle città del Nord o all’estero. Nella “Villa” fu accolta come una benedizione l’installazione del telefono nell’Albergo, perché così si evitava di andare al centralino pubblico dietro il Monumento, dove l’attesa era sempre estenuante.
Ogni sabato, puntualmente all’ora di pranzo, per molti anni arrivò una telefonata dalla Svizzera. Mia madre, dopo aver risposto e subito riattaccato, provvedeva ad avvertire dal balcone Nunziata, una buona vicina di casa, che se ne stava a sferruzzare per tutto il giorno sulla soglia del suo sottano, all’esterno col bel tempo, all’interno col cattivo tempo.
Affannata, Nunziata si precipitava, per quanto la mole e gli acciacchi glielo permettessero, e rimaneva in attesa della seconda chiamata da parte della figlia, non smettendo di scusarsi per il fastidio che procurava e proprio nell’ora più inopportuna, mentre noi ci mettevamo a tavola per il pranzo. Mia madre la tranquillizzava e, non appena il telefono riprendeva a squillare, alzava la cornetta e gliela porgeva. Per discrezione si premurava poi di chiudere la porta della cucina e ci raccomandava di parlare piano. Ma ciò serviva a poco e non c’impediva di ascoltare la conversazione telefonica. La brava donna, infatti, sapendo che la Svizzera era tanto ma tanto lontana, parlava con la figlia ad alta, ad altissima voce, immaginando così di farsi sentire meglio.
Era un vero microcosmo l’Albergo della “Villa”. Per un quarto di secolo lo frequentarono rappresentanti di commercio e impiegati, insegnanti e direttori didattici, ufficiali dell’esercito e commissari prefettizi, cacciatori toscani d’inverno e famiglie di villeggianti pugliesi d’estate. Insomma, un inesauribile e sorprendente campionario di varia umanità.
Il signor Martini girava con una bella Topolino verde, da quando aveva iniziato a fare il rappresentante per un’importante ditta del Nord, dopo essere uscito dall’azienda di famiglia, la rinomata fabbrica di vermut e liquori Martini & Rossi. Era una persona riservata e distinta, dai modi gentili e raffinati.
Come il signor Leonardo Debenedictis, un uomo traccagnotto e gioviale, che ogni due o tre mesi arrivava in compagnia di qualche ispettore della Stock, la fabbrica triestina che produceva il celebre cognac, capace di rendere felici in ogni caso i tifosi delle squadre di calcio. Era contento Debenedictis di venire a Stigliano, essendo molto amico di mio padre. Per questo, negli anni dei miei studi liceali a Potenza più volte di domenica mi volle ospite a pranzo nella sua bella casa di corso Garibaldi.
Aperto ed estroverso, disordinato e chiassoso era, invece, Pasquale Melluso. Veniva da Napoli con una giardinetta familiare stipata di scarpe fino all’inverosimile. Si fermava all’albergo per una decina di giorni, raggiungendo anche i piccoli rivenditori dei paesi vicini. Non amando mangiare da solo, prese ben presto l’abitudine di unirsi al nostro tavolo. Occupata la scena, monopolizzava sempre la conversazione e raccontava con la proverbiale arguzia partenopea aneddoti straordinari e battute esilaranti, senza mai riprendere fiato. Era un fiume inarrestabile di parole, a dispetto della sua forte balbuzie.
Ogni mese circa, di buon’ora, arrivava da Taranto Mario Esposito, un rappresentante della ditta Ettore De Pace. Molto spesso, spento il motore, tirava fuori da un angolo della sua macchina una cassetta di pesce comprata all’alba al mercato della città vecchia e prendeva possesso della cucina. Per un paio d’ore provvedeva a pulire polpi e cozze, preparava ogni cosa per il pranzo e se ne andava a lavorare. Le sue performance ai fornelli erano motivo di felicità per noi ragazzi, che gustavamo piatti degni di un grande chef, e di disperazione per mia madre, che era obbligata alla defatigante impresa di rigovernare una cucina, la quale pareva devastata da un tornado.
Sempre dalla città dei due mari arrivò nel 1959 Tonio Zuccaro, un ragazzo di quindici anni, accompagnato da un caro amico di famiglia, che lo raccomandò caldamente a mia madre. Era venuto a Stigliano, perché era cagionevole di salute e gli era stato consigliato dal suo medico di respirare aria pura di montagna. Grazie all’aria della “Villa” e della Serra, dove al mattino presto lo accompagnavamo io e i miei cugini, condividendo con lui il sacrificio di abbondanti colazioni, rifiorì nel giro di poco tempo. Pur avendo risolto i suoi problemi di salute, continuò a tornare a Stigliano, dove si era integrato perfettamente e amava trascorrervi intere estati. Era ormai uno di noi.
D’improvviso, senza una ragione precisa, ci perdemmo di vista. Ci ritrovammo fortunosamente dopo alcuni anni in occasione della presentazione di un mio libro a Taranto. Riprendemmo a frequentarci, incontrandoci a Stigliano e a Parma. Ci ha lasciati sei anni fa, colpito da un male che non perdona.
Con un’altra bella persona, Nicola Chiechi, che ora vive a Lucera, è capitata qualcosa di analogo. Ci siamo ritrovati dopo un lungo periodo di silenzio grazie alle sue sorprendenti capacità investigative e abbiamo ripreso con naturalezza il nostro bel rapporto, come se non si fosse mai interrotto. Ora le frequenti, lunghe e amabili conversazioni telefoniche con Nicola, che a Stigliano fu direttore avveduto e integerrimo dell’Ufficio Imposte Locali, meglio noto come Dazio, sono per me rigeneranti. In un tempo carico di ansie e di paure mi permettono di colloquiare con una persona di rara sensibilità e di profonda religiosità e di evocare fatti e persone indimenticabili.
Nel 1973, quando ci si avviava ormai alla dismissione dell’attività a causa delle non buone condizioni di salute della “signora Ippolita”, l’Albergo della Villa ospitò un’altra persona meravigliosa, Franco Maratia. Fin dal primo giorno mia madre ebbe per lui affettuose premure e ne fu puntualmente ricambiata. Esagerando, mi spingo a dire che avrei rischiato di perdere la mia condizione privilegiata di primogenito, se non fosse appurato che l’amore materno, come la luce del sole, non scema, se aumenta il numero delle persone che ne possono godere.
Maratia era un giovane medico materano, che ben presto si fece apprezzare da tutti come chirurgo di grande valore. Nell’ospedale di Stigliano prese abbrivio la sua brillante carriera e vi operò per circa quindici anni come assistente, aiuto e, infine, primario. Quando si trasferì, non furono pochi gli stiglianesi, io tra gli altri, che diedero vita a un lungo e intenso esodo verso gli ospedali di Venosa e di Melfi, perché si affidarono a lui per interventi spesso molto delicati.
Ma la mia famiglia ebbe il privilegio di apprezzarne anche le grandi qualità umane e di stabilire una relazione di profonda e cordiale amicizia con lui e i suoi parenti, che si protrasse ben oltre la sua permanenza all’Albergo della “Villa”.
Termina qui il mio breve viaggio di perlustrazione nel mare placido e serenante dei ricordi, iniziato circa une mese fa. Ho la sensazione, alla fine, che si sia trattato di un viaggio per molti versi dissimile dal ben più celebre e travagliato periplo di Ulisse, cantato da Omero e da Dante.
Lui da Itaca a Itaca dopo dieci lunghi anni di guerra e dieci di vagabondaggio per il Mediterraneo. Io da Stigliano a Stigliano o, volendo sottilizzare, dalla “Villa” alla “Villa”, dopo quattro tappe percorse a marce forzate, standomene immoto nella solitudine coatta di Parma.
Lui costretto, dopo il ritorno, a sopprimere i vivi per poter guardare al futuro e godere dei frutti di una vecchiaia serena. Io obbligato a guardare al passato e a far rivivere i morti, per dare un senso al tratto di esistenza che mi resta da percorrere.
Ma va bene così. So che il passato non è per me un territorio straniero. Mi appartiene. È dentro di me e in me vive come un eterno presente.