Domenica, 23 novembre 1980. La vigilia del mio 33° compleanno. Una serata tranquilla, dopo una giornata trascorsa secondo i riti canonici. La mattina, oziando in casa con i bambini, prima del solito struscio antiprandiale. Il pomeriggio, ascoltando alla radio “Tutto il calcio minuto per minuto” e, a seguire, l’incontro con gli amici davanti ai bar di zio Peppe Oramai e del fraterno amico Vittorio, ammirevole in tutto, tranne che per la sua fede calcistica. Per i commenti a caldo e gli immancabili sfottò. Verso sera, il rientro a casa, per assistere al tempo registrato della partita Juventus-Inter, trasmesso alle sette dopo le sintesi di 90° minuto.
Nicola, tre anni e mezzo, era intento a giocare con le macchinine; Michele, poco più di un anno e mezzo, se ne stava tranquillo nel box, essendo ancora immune dal “tifo” calcistico, da cui sarebbe stato ben presto e inguaribilmente contagiato; mia moglie era occupata a stirare. A rompere il banale trantran domenicale, alle 7,35, un boato. Improvviso e pauroso.
In un attimo, non so come, ci ritrovammo all’aperto in piazzale Gramsci insieme con altre persone del vicinato, che erano scappate via di casa in preda al terrore. Ricordo solo che ero stato il primo a percepire che si trattava di un terremoto, forse perché ero ancora memore dell’esperienza fatta otto anni prima.
Da soli otto giorni ero giunto ad Ancona, dove sarei dovuto rimanere per tutto il periodo dell’addestramento, cui si sottoponevano le reclute. Il 14 giugno, verso le sette di sera, mentre nell’immenso cortile della caserma Villarey me ne stavo seduto su una panchina a conversare pacificamente con due commilitoni, vidi un alto edificio di fronte ondeggiare paurosamente. In seguito a una seconda violenta scossa, verificatasi due ore dopo, fu decisa l’evacuazione della caserma e durante la notte fummo trasferiti provvisoriamente a Falconara. Fu davvero una brutta esperienza.
Le inquietanti immagini di quella lontana sera di una calda primavera anconetana, da tempo rimosse, si riaffacciarono di colpo alla mente. A Stigliano, più di otto anni dopo, all’incirca alla stessa ora. In una perfida sera d’autunno, che chiudeva una luminosa giornata di sole.
Trascorsa una mezz’oretta nel piazzale, mi decisi ad andare a tirar fuori la macchina, perché il freddo si faceva sentire e in casa si aveva tutti paura di rientrare. Verso mezzanotte concludemmo che era impossibile restare fuori tutta la notte con i bambini. Non aveva alcun senso. Rientrammo.
La luce del nuovo giorno, ancora illuminato da uno splendido sole, alleviò la paura e riportò un minimo di serenità. Intanto, dalla radio e dalla televisione arrivava l’aggiornamento macabro dei dati: delle strade e degli edifici distrutti, dei feriti, dei morti. Il loro numero cresceva a dismisura di ora in ora. Alla fine si sarebbero contati tremila morti e novemila feriti. La televisione ci mostrava ininterrottamente le immagini impietose della terrificante tragedia, che con l’Irpinia aveva colpito molti paesi lucani, ivi compreso il capoluogo di regione.
Non potei trattenere un amaro sorriso, quando uno dei giornalisti televisivi annunciò con compunzione che il sisma era stato così devastante che aveva colpito, oltre alla Basilicata, anche la Lucania. Riflettei sul triste destino di una terra, da molti dimenticata e condannata a rimanere immeritatamente incognita. Per mia consolazione, pensai allora a quanto fosse vera la considerazione del grande Enzo Biagi, quando affermava che le assunzioni in RAI erano sempre trine: un democristiano, un socialista e uno bravo. In quel momento a raccontare la tragedia era capitato uno che non apparteneva alla terza categoria.
Nei giorni successivi anche Stigliano, come Aliano e molte altre comunità della montagna materana, non mancò di manifestare la sua concreta solidarietà ai terremotati attraverso vari canali. La stessa Chiesa diocesana si mobilitò. I parroci don Pasquale Desantis e don Alberto Distefano si premurarono di organizzare nel mio paese una raccolta di beni di prima necessità, che furono sollecitamente inviati nelle zone terremotate. Ad Aliano fece altrettanto don Pietro Dilenge, raccogliendo viveri, coperte e una sostanziosa somma di danaro, che furono consegnati a un gruppo di terremotati di Balvano ospitati in una scuola di Policoro.
Passarono solo pochi giorni e lo scenario mutò d’improvviso. In maniera clamorosa e inspiegabile. Quel che accadde può essere definito, rubando le parole a Winston Churchill, “un indovinello avvolto in un mistero all’interno di un enigma”.
Iniziò una folle corsa ad essere considerati comuni terremotati. Moltissimi paesi, che non erano stati toccati dal sisma e che anzi avevano provveduto essi stessi a inviare soccorsi ai veri terremotati, si ritrovarono miracolosamente inseriti nel comparto dei paesi danneggiati, grazie all’intervento dei loro laici intercessori. Aliano ebbe anche in dono dalla comunità italo-svizzera di Kreuzlingen un prefabbricato per ospitare la scuola media, da sempre priva di una sede stabile e che in quel frangente, abbandonato lo storico palazzo Caporale, era ospitata presso l’edificio della scuola elementare.
Un fiume carsico di danaro prese a scorrere in un territorio vastissimo. Anche a Stigliano, grazie ai fondi stanziati per il terremoto, molte abitazioni civili e molte case coloniche in pochi anni diventarono più splendenti. Troppe coscienze nello stesso lasso di tempo diventarono più opache.
Il terremoto del 23 novembre chiudeva un anno orribile per l’Italia, che era stata scossa fin da febbraio da ripetuti atti terroristici. Fra gli altri destò una grande impressione l’assassinio del noto giornalista Walter Tobagi, che circa trent’anni dopo sarà rievocato dalla figlia Benedetta in un libro struggente, “Come mi batte forte il tuo cuore. Storia di mio padre”.
Dopo la strage di Ustica, avvenuta a giugno e ancora oggi coperta da un omertoso silenzio, il 2 agosto fu la volta della strage alla stazione centrale di Bologna.
Quel giorno me ne stavo vicino all’edicola dei giornali ed ascoltavo, divertito, le dotte disquisizioni di Saetta, l’edicolante, e di Pasquale Maffei, il postino, su tecniche e strategie da adottare per l’imminente estrazione del lotto. Arrivò, con la sua andatura caracollante, appoggiandosi sui due bastoni che da sempre erano i naturali prolungamenti delle sue braccia, zio Vito Giammetta, noto lə səggiòrə, per il suo mestiere di impagliatore di sedie.
Non si annunciò salutando con l‘abituale provocatoria battuta, che gli consentiva di inserirsi subito nella conversazione: “Də ccè sə pàrl ȯscə, də nȯmərə o də fȯngə?”. Sapeva bene, infatti, che gli argomenti che tenevano quotidianamente banco davanti al chiosco erano i funghi e i numeri al lotto. Solo dopo, ma molto dopo, si trovava spazio per inoltrarsi nell’intricata selva di fatti della politica locale e nazionale.
Quel mattino, invece, zio Vito rimase chiuso per un po’ in un impenetrabile silenzio, prima di informarci con voce strozzata su quello che alle 10,30 era accaduto alla stazione di Bologna. Rimanemmo tutti muti, incapaci di fare qualsiasi commento. Davvero, come si disse poi, quello fu uno dei giorni più bui della storia repubblicana.
Fu un giorno tristissimo di un anno che aveva visto Stigliano protagonista, nel marzo precedente, di un altro evento epocale, la mobilitazione di tutti paesi della montagna materana contro l’insediamento di una centrale nucleare.
Almeno questa era l’idea che era dilagata nella pubblica opinione. In realtà, si trattava dell’insediamento di un impianto di rigenerazione di scorie nucleari nel territorio di Stigliano, che la giunta regionale intendeva realizzare nel contesto di una serie di opere pubbliche molto rilevanti. Pare che il provvedimento fosse stato sostenuto dallo stesso assessore Michele Cascino, fine politico socialista di grande levatura intellettuale, che era nativo di Stigliano. Il progetto aveva incontrato il favore anche di Mimì Rasulo, sindaco comunista del tempo.
Fu, quest’ultimo, una persona a me molto vicina sin da quando ero ragazzo, per antica amicizia familiare. Amavo discutere con lui, perché, pur nella diversità di vedute, che ci collocava su posizioni distinte ma reciprocamente rispettose, ne apprezzavo la passione, il coraggio e la coerenza con cui da sempre si batteva per l’affermazione delle sue idee.
Ricordo ancora il suo orgoglio inespresso, mentre l’altoparlante, che aveva provveduto a installare davanti alla sezione del PCI in via Cialdini, dava i risultati sul referendum per il divorzio e ci congratulavamo a vicenda per l’esito. Credo che Mimì, noto Fərràrə, avrebbe meritato ben altra considerazione di quella che gli fu manifestata postuma, e non senza una certa dose d’ipocrisia da parte di alcuni.
In ogni caso sulla complessa questione del “nucleare” si accese un forte dibattito nei partiti, nei sindacati, nelle associazioni culturali. Tutti si dichiararono contrari all’insediamento e il 25 marzo riuscirono a portare in piazza a Stigliano circa ottomila persone provenienti da tutti paesi vicini. Fu una manifestazione oceanica. Non si ricordava qualcosa di simile dai tempi epici delle lotte contadine per l’assegnazione delle terre.
Come in ogni grande manifestazione non poteva mancare una pennellata di folclore. Fu composta perfino una canzone, cantata da Leonardo Fornabaio, che contribuì a infiammare gli animi e riscosse un immediato e clamoroso successo.
Quel genialoide di Rocco Lasaponara pensò bene di far partecipare al corteo anche Zoff, il bel cane da caccia di suo zio, Michele Tabbanȯnə. Zoff attrasse subito l’attenzione degli inviati dei vari giornali e a uno di loro fu rilasciata anche una lunga intervista. Da parte di Rocco naturalmente, non del cane, che dovette accontentarsi di una bella foto sul quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno”.
La conclusione fu che il tentativo dell’installazione di una struttura per il riciclaggio delle scorie nucleari fu sventato. Ma, a distanza di oltre quarant’anni, non manca chi dice di essersi pentito. E, nel considerare lo sfacelo ambientale attuale, confessa sospirando che forse sarebbe stato meglio se …