Parma – Sono ormai diciassette anni che vivo a Parma, ma ciò non m’impedisce di seguire le vicende, liete e tristi, che riguardano il mio paese, Stigliano, e la mia regione, la Lucania-Basilicata. In tutti questi anni, infatti, non sono mai riuscito a tagliare, perché non ho mai voluto farlo, il cordone ombelicale con i luoghi di origine, dove ho vissuto gran parte della mia esistenza.
Certamente ciò che accade nella mia terra, dove ormai torno solo in estate, lo seguo con una giusta dose di disincanto, non tanto a causa della lontananza, quanto piuttosto per l’età, che mi induce a guardare e a considerare fatti e persone da un altro angolo visuale e in una prospettiva diversa rispetto al passato. Se non altro perché, come era solito ricordare un grande giornalista, che ho letto assiduamente e ho sempre ammirato per la scrittura cristallina e per le idee ispirate da un profondo senso etico, tutto cambia nei nostri pensieri, sentimenti, giudizi, quando con l’avanzare dell’età la striscia dei ricordi si allunga e si riduce irrimediabilmente quella dei sogni o delle speranze.
Mi interesso, dunque, di tutti gli accadimenti lucani e, seppure con una certa riluttanza, seguo anche le vicende politiche. Non mi sono sfuggite, pertanto, le molte traversie dell’asmatico Governo, guidato dal Generale, che ha amministrato la Lucania-Basilicata negli ultimi cinque anni. E sono pure informato di fatti poco commendevoli, di cui si sono resi protagonisti molti personaggi, che a me, come a tanti altri, sono apparsi più preoccupati del loro tornaconto personale che degli interessi della comunità lucana.
Recentemente, poi, ho assistito alle convulse vicissitudini relative alle elezioni regionali del prossimo 21 aprile, che hanno visto le forze (si fa per dire) del centrosinistra dare vita a una pochade di pessimo gusto, che ha invaso i teatrini della politica di tutte le reti televisive. Non credo valga la pena di commentare e dico solo che di fronte ad atteggiamenti paradossali fino alla provocazione non ho provato né sorpresa, né indignazione.
So bene, infatti, che l’attività politica è distinta dalla sfera morale, come ci ha magistralmente insegnato il celebre Segretario fiorentino. No, non intendo dire lo spregiudicato giovanotto di Rignano, che mostra di avere molto a cuore le sorti dell’Italia con i suoi frequenti viaggi in Arabia, dove amichevolmente conversa in un improbabile inglese con l’erede al trono Bin Salman, ma ha tempo di occuparsi anche degli interessi supremi della Basilicata con la sua miracolosa apparizione da Messere pellegrino a Matera, dove ha suggerito ai suoi adepti lucani il salto della quaglia alle prossime elezioni regionali.
Mi riferisco, invece, al grande Niccolò, che, dopo essersi ingaglioffito all’osteria giocando a cricca e trich trach, alla sera se ne tornava a casa e avviava un fecondo dialogo con i nobili spiriti del passato. Ma, pur memore della mirabile lezione dell’autore del Principe, io non riesco ad accettare che la politica sia diventata una palestra di spregiudicatezza e d’immoralità e reagisco nutrendo per essa un senso di rigetto e di nausea. Preferisco, perciò, tenermene alla larga e coltivare interessi per me più gratificanti.
A dire il vero, il sentimento di estraneità, tramutatosi poi in disaffezione, è nato alcuni decenni fa subito dopo una breve esperienza sul campo, che mi portò a essere per cinque anni consigliere comunale al mio paese. Non feci nulla per ottenere la candidatura, anzi opposi una strenua resistenza, quando mi fu avanzata la proposta di candidarmi in un modo imprevisto e inaspettato. Dovetti, poi, cedere nel nome sacro dell’amicizia.
Verso la fine degli anni Settanta, infatti, accadde che la Democrazia Cristiana stiglianese avesse molte difficoltà nel formare una lista per le elezioni comunali a causa di una grave lotta intestina, che aveva prodotto una profonda lacerazione politica fra i tre uomini più rappresentativi, vale a dire Salvatore Peragine, fino a tre anni prima presidente del Consiglio Regionale di Basilicata, Vincenzo Cacciatore, già eletto sindaco per due volte con un consenso plebiscitario, e Giovanni Dilucia, ex-assessore nella Amministrazione provinciale di Matera. Si pensò, allora, di ovviare alla difficile situazione, adottando un metodo ancora non praticato a quei tempi, che apriva le porte alla cosiddetta società civile.
Un caro amico d’infanzia, Francuccio Colangelo, che, animato da nobili ideali, già da alcuni anni militava con un contagioso entusiasmo nel partito democristiano, diventandone anche giovane segretario, mi avvicinò. Pur sapendo delle mie idee liberali maturate al sole delle letture di Croce, Einaudi, Gobetti e dei dialoghi con il sodale compar Peppe Calbi e con il caro dottore don Pietro Laviani, mi sollecitò a candidarmi come indipendente. Lo ringraziai per l’attenzione, ma gli risposi che non era proprio il caso e che era meglio lasciar perdere.
Non solo non mi ritenevo adeguato per una tale esperienza, ma ero proprio refrattario a una partecipazione politica attiva, essendo consapevole delle ragioni della mia idiosincrasia e anche dei miei limiti. Per non farla lunga, dico che, non ostanti le mie forti perplessità e la tenace resistenza, alla fine dovetti cedere alle insistenze del mio amico e a sorpresa mi ritrovai eletto, seppure ultimo con 166 voti di preferenza e con un solo voto in più rispetto al primo dei non eletti.
Sorprendente e lusinghiero fu soprattutto il risultato del partito scudocrociato, che, a dispetto di beghe, ostracismi, diserzioni e grazie alla presenza di molti volti nuovi, fu premiato con una grande e inattesa messe di consensi, che gli valsero ben nove seggi su venti e gli permisero di doppiare quasi socialisti e comunisti. Per effetto, però, della legge proporzionale allora vigente il partito di maggioranza relativa si ritrovò comunque all’opposizione.
Si era, infatti, dato vita a una maggioranza risicata di undici seggi con una giunta comprendente i due partiti di sinistra e l’unico rappresentante di una lista civica, formatasi in dissenso alla DC. La nuova amministrazione vide la luce nell’autunno del 1978 e rimase in carica fino alla scadenza naturale, dopo aver risolto una tormentata crisi, che portò alla destituzione del sindaco comunista Mimì Rasulo, vittima innocente di una disdicevole operazione ordita ai suoi danni da infidi compagni di partito.
La Dc per suo conto, dopo le defatiganti e infruttuose trattative, avviò una fase di intensa attività di opposizione, organizzando numerose e interminabili riunioni prima di ogni Consiglio Comunale. Due temi di capitale importanza erano in quel momento nell’agenda politica di tutti i partiti, il paventato insediamento di una centrale nucleare e il trasferimento dell’abitato in seguito a una rovinosa alluvione verificatasi cinque anni prima.
Tali questioni furono oggetto di approfondite analisi e di vivaci dibattiti e non nascondo che imparai molte cose, partecipando con interesse alle discussioni che riguardavano la vita comunitaria e il futuro di Stigliano. A questo proposito non posso fare a meno di ricordare anche che, se il pericolo ipotetico della costruzione di una centrale nucleare fu scongiurato, non altrettanto positiva fu la soluzione adottata per il trasferimento dell’abitato, che con una scelta improvvida portò alla devastante cementificazione del monte Serra.
Tutt’altro che appassionanti, invece, furono per me le maratone notturne in cui entravano in ballo i tatticismi ambigui e i forti contrasti legati alla vita interna del partito democristiano, sostanzialmente diviso in tre correnti, che si combattevano con notevole asprezza. Presi atto della famigerata e inaccettabile pratica della conta delle tessere, con cui si decideva l’assegnazione del bastone di comando nel partito, e si può facilmente immaginare quale forte disagio potessi avvertire io che non ero neppure tesserato e continuavo a sentirmi un liberale senza partito e un cristiano senza chiesa.
Quelle riunioni, che si prolungavano fino a tarda notte in un’aria densa di acre fumo e sordidi rancori, erano vissute da me con grande imbarazzo e crescente fastidio e non sempre riuscivo a mettere in pratica in mia difesa il suggerimento, che prima di ogni riunione mi dava con intelligente ironia l’amico fraterno Rocco Fornabaio. Per decodificare e comprendere correttamente l’astrusa ambiguità dei messaggi, che venivano lanciati in oscuro politichese, egli mi raccomandava di registrare il cervello in modo tale che traducesse in simultanea il contrario di tutto ciò che veniva detto o fatto. Mi suggeriva, poi, di agire e operare in base ai principi del mio codice etico.
Cercai di attenermi a queste sagge e cordiali raccomandazioni, ma era un esercizio debilitante, che non poteva durare a lungo. Fu così che io e Rocco nel 1984 considerammo una vera liberazione la nostra mancata elezione. Pensammo che fosse addirittura un evento meritevole di una degna celebrazione. Ci ritrovammo, così, con un ristretto numero di amici a festeggiare con una memorabile cena nello storico Palazzo di Santo Spirito, messo gentilmente a disposizione proprio dall’amico che mi aveva trascinato, mio malgrado, nella mia breve avventura politica. Con quella bella serata, solennizzata dalla presenza del Presidente Peragine da noi invitato, ebbe termine la mia militanza politica. Dopo di allora non mi fu difficile declinare gli inviti a tornare nell’agone politico, che mi pervennero ripetutamente da altri amici negli anni Novanta.
Con gande sollievo, dunque, continuai a dedicarmi all’insegnamento senza altre distrazioni e coltivai la mia passione per la scrittura e lo studio. Lo feci con la consapevolezza consolante che si può assolvere al dovere civico anche esercitando con dignità e decoro la propria professione e magari impegnandosi in iniziative sociali e culturali, che diano senso e valore al faticoso vivere quotidiano.