Parma – Era una calma serata autunnale l’8 novembre del 1861 e Aliano si preparava ad addormentarsi sul suo vasto letto di morbidi calanchi. La strada principale e i vicoli del paese erano ormai quasi deserti. I contadini, da poco ritornati dalle campagne, erano rincasati e avevano finito di rigovernare ogni cosa, ponendo fine a una lunga giornata di lavoro, consumata nella faticosa raccolta delle olive.
I muli e gli asini, sdraiati per terra nel retro del sottano, dopo aver consumata placidamente la loro porzione di biada, del tutto insufficiente a causa delle ristrettezze dei tempi, godevano del meritato riposo serale. I loro umani compagni di fatica, non lontano, se ne stavano silenziosi vicino al focolare e di tanto in tanto aprivano la bocca ad uno svogliato prolungato sbadiglio, in attesa di poter consumare anch’essi un frugale pasto quotidiano, prima di andarsene a dormire.
Le case dei signori da un paio di giorni erano rimaste tutte vuote e molte avevano gli usci sbarrati. I proprietari erano scappati via in tutta fretta, appena si era sparsa la voce dell’arrivo dei briganti. Tra loro non aveva perso tempo ad alzare i tacchi anche il sindaco Nicola Maria De Leo, il cui avo quarant’anni prima era stato Gran Maestro della Vendita Carbonara di Aliano.
Tutti erano fuggiti, chi verso Stigliano, chi verso Corleto, terrorizzati dall’idea di trovarsi di fronte alla banda di Carmine Crocco, il terribile brigante che con le sue larghe spalle possenti, l’alto cappellaccio scuro, la barba lunga e nera e neri gli occhi scintillanti, era considerato “il terrore della Basilicata”.
Per i paesi lucani da tempo circolava la voce degli orribili atti di ferocia, che la banda del Rionerese era capace di compiere. Avevano sentito dire che, quando quei demoni si avvicinavano ai centri abitati e vi entravano, incendiavano casolari, devastavano le case, facevano razzia di vettovaglie, spesso uccidevano senza alcuna pietà. La fama ingigantiva e rendeva ancora più spaventevoli agli occhi dei galantuomini le loro azioni delittuose.
I contadini alianesi, invece, non sembravano preoccupati più di tanto, forse perché non avevano nulla da perdere, forse perché si sentivano rassicurati dalla presenza in quella banda di un giovane contadino compaesano, Giuseppe De Leo. Questi, vittima di ripetuti soprusi da parte di un signorotto per cui lavorava, si era alla fine ribellato e, dopo avergli dato la lezione che meritava, non aveva perso tempo a darsi alla macchia, sposando la causa dei briganti.Tra la povera gente insomma, a volerla dire tutta, non erano pochi quelli che del generale Crocco e dei suoi uomini pensavano e dicevano bene, perché erano proprio convinti che si battessero a favore dei più poveri e dei più indifesi, da sempre vittime della miseria e delle umane ingiustizie. Insomma, li consideravano degli eroi e ne ammiravano le gesta.
La banda di Crocco era partita da Calciano il 5 novembre, aveva colpito Trivigno e Garaguso, era scesa fino a Salandra, dove era stato bruciato vivo Celerino Spaziante, appartenente a una famiglia molto facoltosa del paese, e con il supporto di una parte del popolino era stato sbaragliato un drappello di piemontesi. Passò da Craco e dopo tre giorni di marcia, verso il crepuscolo, era giunta finalmente ad Aliano, un paese che a quel tempo contava 1750 abitanti. Erano perlopiù contadini, che conducevano da sempre una vita di stenti, coltivando i loro piccoli infruttuosi poderi lungo il torrente Sauro o in prossimità del fiume Agri.
Qui la maggior parte della gente accolse benevolmente i briganti e il loro generale. Non mancarono anzi contadini che, usciti di casa appena si accorsero del loro arrivo, fecero loro gran festa, come se fossero benefattori venuti da chissà dove a portare giustizia e benessere. A Crocco non sfuggirono i sentimenti di umana simpatia dei contadini alianesi e ne rimase molto compiaciuto. Presto, con i suoi luogotenenti Giuseppe Caruso di Atella, detto zi’ Beppe, Giuseppe Nicola Summa di Avigliano, noto Ninco Nanco, e pochi altri uomini tra i più fidati, si alloggiò in un palazzo, il più importante del paese, che si trovava di fronte alla chiesa.
Pur essendosi i padroni rifugiati a Montalbano Jonico, il palazzo non era del tutto disabitato. Vi erano rimasti il fattore con pochi domestici e una servetta, con l’incarico di custodire, per quanto fosse possibile, i beni abbandonati dalla famiglia, che aveva pensato bene di mettersi in salvo dandosi alla fuga. Quei ricchi possidenti inorridivano al solo pensiero di cadere nelle mani dei briganti, perché avevano sentito più volte raccontare che tutti i signori che malauguratamente cadevano nelle loro grinfie, venivano nel migliore dei casi taglieggiati, più spesso gravemente mutilati o ammazzati.
Dopo aver preso, dunque, possesso del grande palazzo signorile, una ventina di briganti ordinarono che si preparasse loro da mangiare. Da parte dei domestici presenti si provvide con pronta sollecitudine e nel migliore modo possibile, per soddisfare quelli che sembravano i nuovi padroni. Fu apparecchiata un’ottima tavola, che contribuì a mettere di buonumore gli ospiti. Quando dopo qualche ora tutti erano abbastanza sazi di cibo e di vino, Crocco, appagato ed euforico, esternò ai suoi uomini la viva soddisfazione per l’accoglienza ricevuta.
Sentì, a quel punto, anche l’irrefrenabile bisogno di confidarsi e non esitò ad ammettere senza troppi giri di parole che si sentiva ormai stanco del tipo di vita che ormai conduceva da circa dieci anni. Aggiunse che intendeva per questo porre fine alle sue lunghe scorribande per la Basilicata. Concluse, infine, con tono serio che non gli sarebbe certamente dispiaciuto di sistemarsi in maniera definitiva ad Aliano, diventandone duca. Mentre comunicava queste sue intenzioni, inaspettatamente sentì anche insorgere forte il desiderio, mai avvertito prima, di raccontare di se stesso e della sua vita passata. Fece sedere al suo fianco Ninco Nanco e zi’ Beppe e, rivolgendosi a loro due e a tutti gli altri commensali, prese lentamente a raccontare.
Chissà per quale motivo, forse perché lo considerava l’avvenimento decisivo della sua vita, volle iniziare dal suo primo delitto. Lo aveva compiuto all’età di ventuno anni, per vendicare la sorella alla quale un signorotto del paese, un tale Don Peppino C., intendeva togliere l’onore e, così facendo, togliere la reputazione a tutta la famiglia della illibata fanciulla.
«Don Peppino, – raccontò Crocco – il bellimbusto che aveva mercanteggiato l’onore di mia sorella, faceva vita scioperata al Circolo, dove ogni sera si giocava impunemente all’azzardo. Rincantucciato in un angolo oscuro presso la porta di casa sua, attesi tranquillo la vittima; un buon colpo di pugnale punì l’audacia di quel libertino. Compiuta la vendetta mi diedi alla campagna dove in breve ebbi a compagni di mestiere altri tre individui, essi pure ricercati dalla giustizia. Nascosti nel più fitto delle boscaglie, noi si aggrediva chi ci capitava, limitando le nostre imprese a svaligiare i viandanti, rubar loro coi danari i cavalli».
Visto che la voglia di parlare di Crocco era tanta quanta la curiosità dei suoi compagni di ascoltare e di saperne di più del loro rispettato e temuto generale, egli non si lasciò pregare e prese con calma a ricordare anche le sue umili origini. Così continuò:
«Nacqui la prima domenica di giugno dell’anno 1830 da Francesco Crocco Donatelli e da Maria Gera di Santo Mauro. Mia madre fino al 1836 diede alla luce cinque figli. Prima di me nacque Donato, poi Rosina, Antonio e Marco; il sesto era per venire al mondo quando Iddio, invidioso della nostra felicità, cominciò a flagellarci.
Mio padre era pastore e contadino; quando nel 1824 prese moglie si divise da suo padre, comprò poche pecore e alcune capre, e, tolto in affitto un pezzo di terra da una famiglia patrizia, cominciò a seminare grano, legumi, formentone e qualche poco di canapa. Col suo lavoro quotidiano ricavava tanto da pagare il fitto al padrone e provvedeva al vitto della famiglia, mentre colle capre e colle pecore guadagnava altra moneta per far fronte alle spese di casa. Mia madre aveva ereditato un tumolo di terra piantata a vigna, la quale era la delizia di noi creature; possedeva pure due casupole ed esercitava il mestiere di scardar lana, con cui lucrava pane per sé e per i figli. Sia mio padre che mia madre, che Dio li abbia in pace, non ci lasciavano mancare nulla. Bello era al mattino quando mio padre apriva l’ovile e le capre uscivano all’aperto, saltellando per nutriti pascoli, mentre noi bambini scorazzando uniti, andavamo a gara in cerca di fiori per portare alla mamma».
Gli uomini, che gli stavano intorno, seguivano tutti il racconto di Crocco senza fiatare. Attenti, non si perdevano una sola parola. Ciascuno forse vedeva riflessa nella vita del capo la propria vita, nelle sue gioie le proprie gioie, nella sua perdizione la propria perdizione. Non lo interruppero e rimasero muti. Egli allora proseguì: «E mia madre quanta bontà nei suoi sguardi pieni di affetto, quanto amore nelle sue cure, quanta assidua volontà di lavoro! Si alzava all’alba, preparava la bisaccia del marito, rassettava la casa, curava i figli e poi con faticosa lena si dava al lavoro, sicura di guadagnare i suoi 40 centesimi prima del tramonto.
Quanta pazienza deve avere una madre nell’allevare i suoi figli! Eppure ho inteso da certi uomini dire quale disprezzo massimo per le donne: “Eh, sono femmine e basta!”. Io, invece, dopo tanti anni vi ripeto che quel figlio che ha la sorte di nascere da una virtuosa madre, se lei riceve un minimo oltraggio da un uomo prepotente, deve prendere vendetta. Se non prende vendetta, quel figlio è un codardo, un uomo dappoco». A queste ultime parole i volti di zi’ Beppe, Ninco Nanco, degli altri briganti s’illuminarono e nei loro occhi balenarono sguardi teneri e feroci. Tutti erano come impaniati nel guazzabuglio di pensieri, sentimenti, ricordi che il sofferto e appassionato racconto era stato capace di suscitare. Anche il generale a questo punto rimase a lungo pensoso. Poi, dopo una non breve pausa, schiaritasi la voce, riprese con calma a raccontare e, facendo un bel salto nel tempo, incominciò a dire dei fatti accaduti più recentemente:«Dopo la spedizione di Garibaldi e l’organizzazione in quasi tutti i paesi di insurrezioni contro il mal governo borbonico, credetti giunto il momento della mia riabilitazione morale. Condannato a grave pena per avere ucciso un vile, io avevo coll’astuzia e colla forza vinta la continua persecuzione dei gendarmi, guadagnandomi la libertà con altro sangue, la vita con rapine ed aggressioni. Ora con un nuovo governo io speravo sorgere a vita nuova, quando …».
Il racconto, questa volta, fu interrotto bruscamente dall’ingresso improvviso di due uomini che stavano di guardia. Arrivarono trafelati e annunciarono di essere stati informati che due colonne di circa 1200 soldati, tra fanti e bersaglieri, partite da Matera, erano da poco giunte nei pressi di Stigliano e si preparavano ad attaccare d’intesa con gli uomini della Guardia Nazionale, provenienti da Corleto. Crocco prese atto delle informazioni e, dopo aver riflettuto per un po’, si alzò da tavola e congedò tutti, dando appuntamento per le prime ore del mattino successivo. Andò a dormire, ma il sonno tardava a venire e così poté pensare al da farsi.Si domandò più volte come concertare un piano d’azione con il generale spagnolo Borjes, che comandava le truppe legittimiste, dopo essere stato spedito dal Comitato Borbonico di Marsiglia a tenere viva la lotta contro i piemontesi. In ogni caso Crocco sentiva dentro di sé che stava per vivere un momento eccezionale, forse decisivo, della sua giovane e inquieta esistenza. Finalmente si fece giorno e poco dopo l’alba impartì l’ordine di radunare tutti gli uomini dentro e fuori il paese e di avviarsi verso la piana di Acinello.
Vi furono subito i primi scontri che provocarono quattro vittime nel contingente della Guardia Nazionale. Ma la battaglia decisiva avvenne l’indomani, domenica 10 novembre, nei pressi del Mulino e della Taverna, sede della dogana delle transumanze. I briganti e le truppe legittimiste si scontrarono con gli uomini della Guardia Nazionale, comandati da Emilio Petruccelli, e con tre compagnie del 62° Fanteria, guidate dal capitano Icilio Pelizza. Fu una battaglia memorabile, al cui esito risultarono fattori decisivi la maggiore dimestichezza dei briganti con il territorio e l’intervento della cavalleria abilmente comandata da Ninco Nanco, che riuscì ad accerchiare i nemici. In tutto si fronteggiarono circa 2000 uomini. Dopo un lungo e aspro combattimento la Guardia Nazionale fu sopraffatta dalla cavalleria di Ninco Nanco e le truppe piemontesi rimasero sguarnite e intrappolate. Alcuni soldati riuscirono a trovare una via di fuga, altri reagirono con ripetuti assalti alla baionetta, seguendo l’esempio del capitano Pelizza. Ma non poterono evitare la sconfitta, che si rivelò una vera e propria disfatta.
Della Guardia Nazionale, datasi a una fuga disordinata, si salvò in modo rocambolesco lo stiglianese Filippo Maffei. Defilatosi, riuscì a liberarsi della divisa e ai briganti, che erano sopraggiunti dopo un po’, fece credere di essere stato aggredito e malmenato dai gendarmi. Per il resto fu un vero bagno di sangue. Tra i briganti trovò la morte il giovane contadino alianese Giuseppe De Leo. Del Regio esercito rimasero sul terreno oltre 40 uomini. Fra loro anche il capitano Pelizza, non si sa se colpito da un giovane brigante sedicenne o freddato, come qualcuno disse, dallo stesso Borjes con un colpo di pistola sparato a bruciapelo. Aveva solo 29 anni. Aveva tenuto fede al solenne giuramento fatto la sera prima ai suoi soldati, che non sarebbe caduto vivo nelle mani dei briganti e che avrebbe saputo morire come si conviene.
Icilio Pelizza era nato il 10 maggio 1832 a Parma al tempo in cui la città era sotto la guida di Maria Luigia, la duchessa venerata dai parmigiani per il suo governo illuminato. Figlio di un orefice di Strada San Francesco, divenuta poi via Bixio, al fonte battesimale aveva ricevuto ben cinque nomi che erano tutto un programma di vita, Icilio Epaminonda Fermo Libero Severo.
A tredici anni si era iscritto al Collegio Militare ducale e nel 1853 era diventato sottotenente dell’esercito ducale. Dopo aver militato nelle file dei garibaldini, divenne luogotenente dell’esercito piemontese nel 1859. L’anno dopo fu promosso capitano e assegnato al 62° reggimento, di stanza a Napoli e poi a Benevento, da dove fu inviato a contrastare e a reprimere le scorrerie delle bande di Carmine Donatelli Crocco.
Quando Crocco s’imbatté nel cadavere di Pelizza, trovò che era stato già decapitato. Ne fu incolpato un soldato ungherese, che era caduto prigioniero dei briganti e con quel gesto forse pensava di ingraziarseli. Per impedire ulteriori scempi, fece ricomporre la salma che, dopo aver ricevuto l’onore delle armi, fu consegnata alle autorità di Corleto. Il valoroso capitano fu sepolto nel cimitero del paese e in suo onore fu eretto un monumento con una epigrafe composta dal colonnello Marchetti, comandante del 62º fanteria. I suoi pochi oggetti personali, tramite i frati del Convento di Stigliano, furono fatti pervenire all’Autorità Prefettizia, perché ne disponessero a loro piacimento. La sciabola, invece, fu ritrovata solo alcuni giorni dopo nel cavo di una quercia nel bosco di Accettura. Da Nicola Chiaramonte, che aveva militato nella Guardia Nazionale, fu restituita alla famiglia e da questa donata al Comune di Parma. Il nome di Icilio Pelizza rimase immortalato grazie a una lapide fatta collocare nei Portici del Grano, per ricordare i parmigiani caduti nelle battaglie risorgimentali.
Dopo gli eventi accaduti nella piana di Acinello anche Crocco con la sua banda si trasferì a Stigliano. La cavalleria, quando giunse nei pressi di Caporotondo, s’imbatté in una interminabile processione di persone di varia età e condizione, uomini e donne, vecchi e bambini, possidenti e sacerdoti, che avevano preferito scappare prima che i briganti arrivassero in paese e cercavano ora di mettersi in salvo nella vicina San Mauro. Furono lasciati andare, anche perché nella retroguardia seguivano gli uomini della Guardia Nazionale. Giunto a Stigliano, Crocco prese atto che “erano rimasti solo i poverelli”. I suoi uomini si sistemarono nei palazzi abbandonati dai signori in fuga e lui stesso ebbe il privilegio di essere accolto nel palazzo dei principi Colonna. Mentre vi si dirigeva, gli si avvicinò un grasso parroco che, mostrandogli il crocifisso, lo implorò di avere pietà, di risparmiare la gente rimasta in paese e di liberare una quarantina di detenuti. Crocco, che si professò sempre un timorato di Dio, usò clemenza. Dopo soli due giorni decise con Borjes di levare le tende da Stigliano e si mise in marcia verso Potenza.
Il racconto finisce qui. Ma, se è d’obbligo che le favole si concludano con una morale, è bene che questa storia non resti monca di una riflessione finale. Per quanto essa possa apparire inutile, forse non è del tutto fuori luogo. A distanza di 160 anni, nel territorio che fu teatro della battaglia campale di Acinello fra i briganti di Crocco e l’esercito del neonato Regno d’Italia, si assiste oggi a un altro scontro epocale, che vede contrapporsi due forze del tutto dissimili fra loro riguardo ai mezzi e agli obiettivi e che solo in apparenza è incruento. Da una parte c’è una sempre più sparuta schiera di persone, certamente pugnace ma sin qui impotente, che lotta per la salvezza dell’ambiente e per la stessa sopravvivenza di questo lembo disgraziato della Lucania-Basilicata, terra da secoli tormentata da malattie e miserie e oggi devastata da una continua e dissennata attività di estrazioni petrolifere.
Sull’altro fronte, invece, c’è un nemico sfuggente e non facilmente identificabile, subdolo e potente, che si batte ad oltranza e con protervia in difesa di enormi e spesso opachi interessi politici ed economici, strettamente legati a un terribile mostro che ha assunto le vaghe sembianze della policefala Idra di Lerna. Come la orripilante creatura mitologica, infatti, il nuovo mostro è governato da un’intelligenza maligna ed è capace con il suo alito pestilenziale di compiere stermini devastanti.