Venosa
Città natale di ORAZIO
Orazio, il Lucano più conosciuto al mondo, riuscì a indurre i suoi Pensieri di vera Poesia, di poesia allo stato puro, tanto da cogliere l’aspetto lirico della vita, e renderlo l’elemento centrale della propria visione dell’Esistenza. Orazio, riuscì a diffondere universalmente l’espressione più poetica della Lucania: la qualità propria e distintiva della sua Lucania.
Quella lucani/Leukania, Terra della luce”, che tanto sembra identificarsi con Leucanoe, dal significato emblematico “Pensieri candidi”, la fanciulla a cui Orazio, ne “La giornata”, la sua ode più famosa, rivolge l’invito a vivere intensamenteogni momentodella propria esistenza.
Orazio, l’ode del Carpe Diem (I 11)
Non domandare tu mai
Quando si chiuderà la tua
vita, la mia vita,
non tentare gli oroscopi d’Oriente:
male è sapere, Laucònae.
Meglio accettare quello che verrà,
gli altri inverni che Giove donerà
o se è l’ultimo, questo
che stanca il mare etrusco
e gli scogli di pomice leggera.
Ma sii saggia: e filtra vino
e recidi la speranza
lontana, perché breve è il nostro
cammini, e ora, mentre
si parla, il tempo
è già in fuga, come se di odiasse!
Così cogli
la giornata, non credere al domani.
Ci sono luci di molti tipi, e ciascuna promette una salvezza, o di tanto in tanto un pericolo, ma ognuna in modo diverso. Si può trascurare una simile generosità? Presente Edward Hopper, il pittore? Un grandissimo. Ecco la sua frase più famosa: «Maybe I am not very human – what I wanted to do was to paint sunlight on the side of a house». Traduco: «Probabilmente non è che io sia poi così umano – tutto quello che volevo fare era dipingere la luce del sole su un muro». Traduco più liberamente: «D’accordo, ci sono degli umani al mondo, ogni tanto li dipingo pure, ma in realtà, se devo essere sincero, a me il cuore della faccenda sembra la luce del sole quando si appoggia su un muro».
Ci sono momenti – passeggeri ma mai insignificanti – in cui mi accade di pensare, nel mio piccolo, la stessa cosa, e non disponendo del talento necessario a dipingere una luce, mi limito a vederla, e a ricordarla, ottenendo alla lunga il risultato, che potrà parere discutibile, di disporre di una collezione di luci, nella memoria. Sono sempre stato convinto che mi servirà quando sarò in qualche strettoia bastarda della vita. Quindi, ovviamente, c’è uno scaffale dedicato alla collezione delle luci, nell’Archivo General. (Dice, ma guarda questo che mentre il mondo crolla si mette a collezionare delle luci. Esatto.) Ci sono infatti, come sicuramente sa qualsiasi umano dotato di un minimo di dolore, luci di molti tipi, e ciascuna promette una salvezza, o di tanto in tanto un pericolo, ma ognuna in modo diverso.
Si può trascurare una simile generosità? Ricordavo ad esempio di aver visto una luce che non conoscevo, tanti anni fa, alla controra, nel cuore di una torrida estate, nelle vie di un paese che si chiama Venosa (Basilicata). Negli anni l’avevo catalogata come una luce bellissima di cui mi era sfuggito il segreto. Così, trovandomi in zona, sono andato a controllare. Torrida, era torrida, l’estate. L’ora era quella, le vie quelle. E, in effetti, la luce era là, non se n’era andata. (Venosa è un nome che non vi è probabilmente estraneo, e questo per due ragioni.
Ecco la prima: è la città natale di Orazio. Non il marito di Clarabella, sto parlando del grande poeta latino. «Stendi grato la mano verso quell’ora fortunata che un dio ti ha concesso e non rimandare di anno in anno le gioie che puoi oggi assaporare.
Così, ovunque tu sia stato, potrai dire di essere vissuto contento».) Di per sé, la luce di Venosa è una specie di colata lenta, riversata su pietre il cui colore sembra nato per accoglierla, e in apparenza proveniente da un enorme secchio di luce traboccato dopo una qualche attesa durante la quale, della luce, è andato perso qualcosa. Direi che la cosa più simile, in natura, è la prosa di Àlvaro Mutis, se paragonata a quella di Gabriel Garcìa Màrquez (a certi livelli, la scrittura non è più un artefatto ma una sezione del mondo naturale, come cerco di spiegare a scuola). Caratteristica della luce di Venosa è, inoltre, l’essere rovente, ma in un modo ossessivo, un po’ ottuso, e scarsamente variegato. È una luce infatti che non contiene vento.
L’altra ragione per cui potete avere sentito parlare di Venosa è questo nome: Gesualdo da Venosa. Gesualdo era un principe cinquecentesco e va ricordato, pur semplificando un po’, come uno degli inventori della musica classica. Allora si chiamava musica reservata: si alludeva a una cerchia particolarmente raffinata di quella cerchia, già minuscola, che era quella dei potenti. La musica che amavano era un esercizio sofisticatissimo di combinazione di suoni, detto polifonia: la usavano per dare canto a testi poetici, non sempre belli, a volte splendidi. Ne risultavano composizioni dai nomi molto eleganti: mottetti, madrigali. In questo genere di esercizio Gesualdo da Venosa era un genio: imprevedibile, visionario, profetico.
Gli altri combinavano suoni, lui li disintegrava per poi rimontarli a modo suo. Per capirci, era un uomo capace di entrare tra una nota e l’altra sicuro che lì in mezzo ci fosse un suono, una sfumatura di suono, un sospiro di suono, un velo di suono, che faceva la differenza. In effetti c’era, si chiamava semitono, e il primo a usarlo da dio fu lui.
Colpisce oggi il fatto che un uomo tanto dedito al pressoché invisibile, ed evidentemente tarato per percepire il nulla, sia ricordato anche per aver massacrato la moglie e il suo amante nel letto in cui li trovò, a casa sua, dopo aver fatto finta di andarsene via a caccia per una settimana. Per comprendere la vicenda nei suoi termini più appropriati, andrebbero annotati molti dettagli fantastici che però qui tralascio perché la storia è talmente famosa che la trovate anche sulle tovagliette delle pizzerie, a Venosa.)
In definitiva la singolarità della luce di Venosa, alla controra, nel cuore di un’estate torrida, è data dal fatto – ho finito per capire – che non c’è mare. È luce del Sud – da noi nordici facilmente identificabile – ma curiosamente il mare è troppo lontano, e quindi si è perso nella distanza qualsiasi riflesso, e ogni vivacità gratuita, eco di felicità, lusso di colore.
Come d’altronde la terra che la circonda, è una luce splendente di povertà, il che la rende particolarmente adatta a spiriti mansueti e fastidiosa a chi coltivasse un’indole inquieta, o ambiziosa, o obliqua. È una luce, ho inoltre constatato, che tende ad ammutolire le pietre e le cose e le persone. Produce silenzio, si direbbe. Ovvio che abbia generato uno dei più grandi musicisti della Storia. (Quanto a Orazio, ecco il suo verso più bello: Aut insanit homo, aut versus facit. L’uomo, o impazzisce o scrive versi.)
È il luogo in cui Federico II, Imperatore di Svevia, amava rifugiarsi per dedicarsi all’arte venatoria, una delle sue passioni, ed è stato il luogo prediletto da Manfredi, figlio dello stesso “Stupor Mundi”.
L’affascinante maniero medioevale, adagiato com’è su una collinetta che sorge sui fiumi Ofanto e Bradano, in posizione dominante sul borgo di Lagopesole, si lascia ammirare nel suo massiccio blocco rettangolare articolato su due piani e caratterizzato da due cortili, uno maggiore e uno minore, e una torre contraddistinta da una muratura bugnata nella parte superiore, tipica dell’architettura sveva.
Il cortile maggiore rimanda all’ampliamento intrapreso da Federico II (1242) sui resti delle precedenti costruzioni normanno-sveve e angioine e comprende anche una vasta cisterna e una grande cappella. E proprio la cappella, in stile romanico, distingue questo splendido maniero dagli altri attribuiti a Federico II di Svevia, essendo l’unico esempio di luogo di culto rispetto a quelli dell’epoca imperiale.
Così come appare oggi, seppur restaurato negli anni novanta, il castello di Lagopesole conserva le modifiche volute dall’intervento di Carlo I d’Angiò. Nell’Ottocento, rifugio dei briganti capeggiati da Carmine Crocco, oggi il maniero è location prediletta per prestigiose iniziative culturali, in particolare “Il Mondo di Federico II”, che grazie ad un Museo Narrante e ad una multivisione dagli effetti scenici straordinari racconta la vita di corte al tempo dell’Imperatore Svevo.