Parma – Torna in campo o, per essere esatti, in libreria Nicola Coccia, giornalista de “La Nazione” per trent’anni. Lo fa con un nuovo libro, che come il primo è stato pubblicato dalle Edizioni ETS di Pisa. Dopo “L’arse argille consolerai”, il saggio dedicato a Carlo Levi, che ha avuto un notevole e meritato successo di critica e di pubblico, è la volta adesso di “Strage al Masso delle Fate”, che vede protagonisti, come spiega il sottotitolo, Ottone Rosai, Bogardo Buricchi ed Enzo Faraoni negli anni che vanno dal 1933 alla liberazione di Firenze.
Ma è bene premettere subito che in questo libro corale intorno ai protagonisti si muove e vive una folla di persone, non di comparse, le cui storie contribuiscono a contestualizzare gli eventi e a realizzare un prezioso mosaico, che significativamente raffigura la drammatica realtà di Firenze dalla caduta del fascismo alla Liberazione.
Si potrebbe chiosare, quindi, il meritorio lavoro di Coccia con un lapidario commento: “Ora e sempre Resistenza!”. Sono le quattro scultoree parole poste a suggello del famoso componimento in versi liberi, che Piero Calamandrei volle scrivere per confutare con irridente e amaro sarcasmo le parole del generale nazista Albert Kesselring, quando questi aveva provocatoriamente dichiarato che gli italiani gli avrebbero dovuto erigere per gratitudine un monumento.
Ma l’ultima fatica letteraria di Coccia è sicuramente meritevole di qualche parola in più. Si tratta, infatti, di un’opera, che si avvale di molte e interessanti testimonianze ricavate da interviste realizzate nel corso di quindici anni oltre che di lunghe e meticolose ricerche di archivio. Risulta, perciò, doveroso darne un sia pur rapido resoconto, accompagnato da qualche breve riflessione.
Risulta di chiara evidenza che il libro “Strage al Masso delle Fate” si colloca idealmente nell’alveo della prima opera, in cui l’autore ricostruisce sapientemente la gestazione del celeberrimo “Cristo si è fermato a Eboli”, scritto da Carlo Levi in una casa di Piazza Pitti negli anni tragici in cui infuriava la guerra e Firenze era occupata dai tedeschi.
Ma se lo sfondo integratore è lo stesso, cambiano ora, com’è naturale che sia, gli eventi e i protagonisti. In quest’ultima opera l’attenzione è rivolta ai fatti straordinari, di cui furono parte attiva, seppure in modo diverso, i pittori Ottone Rosai ed Enzo Faraoni con il partigiano Bogardo Buricchi e che ebbero il loro drammatico epicentro nella eclatante azione antinazista condotta nella stazione ferroviaria di Carmignano.
Nella prima delle tre parti in cui è strutturata l’opera, impreziosita peraltro da un funzionale apparato fotografico e da una ricca bibliografia, l’autore delinea le figure dei tre protagonisti, ricordandone importanti elementi biografici soprattutto in riferimento alla crescita e alla formazione negli anni decisivi dell’adolescenza e della giovinezza.
Ad iniziare da Ottone Rosai, il quale ama considerarsi solo «un povero diavolo che ha la religione nella pittura». Di lui si rievocano, in particolare, gli anni tormentati della miseria e della guerra e, subito dopo la conclusione del primo conflitto mondiale che lo aveva visto combattere con straordinario coraggio, i primi passi nel mondo dell’arte e della cultura fiorentina, di cui sarebbe diventato uno degli esponenti di maggiore spicco.
Di Bogardo Buricchi, figlio di un operaio nella fattoria Rasponi di Carmignano, si ricorda l’ingresso nel seminario di Pistoia, dove ebbe compagno di camerata il futuro cardinale di Firenze Giovanni Benelli. Prese l’abito talare nel fatidico anno 1933, all’età di tredici anni, e lo abbandonò quattro anni dopo, quando uscì dal seminario. Conseguito il diploma, andò a insegnare a Visignano, un minuscolo borgo dell’Appennino tosco-emiliano, dove iniziò a scrivere i primi versi e i primi racconti.
Dopo la morte, a Bogardo sarà intitolata una brigata partigiana di 250 uomini, di cui fece parte anche un lucano di Montescaglioso, Giambattista Salinari. Fratello Carlo, uno degli organizzatori dell’attentato in via Rasella a Roma, come lui «si muoveva tra scuola, politica e letteratura». Se ne parla nella terza parte del libro, in uno dei più intensi e sconvolgenti capitoli, in cui si espone un doloroso campionario degli orrori compiuti dai tedeschi in occasione del tentativo della liberazione di Prato.
Nel 1933 aveva 13 anni Enzo Faraoni, studente dell’Istituto d’Arte di Porta Romana a Firenze, che raggiungeva ogni giorno da Carmignano. Qui il padre Ferdinando dirigeva la stazione ferroviaria, la tredicesima della Leopolda, costruita proprio di fronte al leggendario Masso della Gonfolina, detto anche Masso delle Fate per l’aura di magia che l’avvolgeva. Faraoni fu invaso dalla passione per l’arte all’età di 16 anni, dopo aver visto una mostra di Lorenzo Viani, il pittore viareggino che con parsimonia di colori raccontava «la fame, il mare, la guerra, il dolore e la pazzia». Capì allora che la pittura «significava dipingere le emozioni». A soli 22 anni divenne assistente di Ottone Rosai all’Accademia delle Belle Arti fiorentina.
I fatti narrati nella seconda parte del libro prendono le mosse dal 25 luglio 1943, vale a dire dalla caduta del regime fascista. La loro narrazione, peraltro, conferma le peculiarità della scrittura di Nicola Coccia, che si segnala per uno stile asciutto ed essenziale, che mira direttamente al cuore delle cose. Grande poi è la cura che l’autore pone nei dettagli e raffinato il gusto per l’aneddotica, che, comunque, non è mai irrelata e fine a se stessa, ma aiuta a delineare il carattere e la psicologia dei personaggi e ad illuminare il contesto narrativo.
La narrazione è focalizzata sui fatti accaduti il 10 giugno 1944 allo scalo ferroviario di Carmignano, dove vengono fatti saltare per aria 8 vagoni carichi di tritolo, che i tedeschi stanno per inviare nel territorio di Parma e Brescia allo scopo di distruggere strade e ponti e rallentare così l’avanzata degli Alleati dal Sud. Nella devastante esplosione perdono la vita oltre a Bogardo Buricchi, il fratello Alighiero, Ariodante Naldi e Bruno Spinelli. L’attentato, che risulta decisivo per il prosieguo della guerra, produce comunque reazioni e conseguenze drammatiche, benché non ci siano vittime fra i tedeschi.
Seguendo poi le tracce del superstite Enzo Faraoni, che dopo l’audace azione ripara a Firenze in casa di Ottone Rosai, presto divenuta rifugio di gappisti e partigiani, si può assistere alla tragedia di una città in cui infuriano la bestiale ferocia dei nazisti e l’efferatezza della banda di Mario Carità, capace di torturare e di uccidere senza uno scopo e senza una ragione. Era, come scrisse Piero Calamandrei, «una società d’artisti della sofferenza altrui».
Di questo grande dramma corale, andato in scena nelle piazze e nelle strade di Firenze sino alla fine di agosto del 1944, che vide un intero popolo soffrire, insorgere e vincere la battaglia per la libertà, Nicola Coccia ha il merito di offrire una vivida e coinvolgente rappresentazione.
In sintesi, “Strage al Masso delle Fate”, un libro avvincente come un romanzo, è anche utile e istruttivo, perché aiuta a comprendere una delle più tragiche fasi della vita nazionale. Nell’ambito della sterminata letteratura resistenziale merita un posto di rilievo, perché attesta anche attraverso documenti inediti che la Resistenza, a dispetto delle tesi di alcuni revisionisti e negazionisti, ebbe di sicuro un ruolo determinante per il ritorno alla libertà e alla democrazia. La sua lezione può considerarsi esemplare e risultare valida ancora oggi, seppure in un contesto storico del tutto mutato.