Parma – È trascorso un anno da quando Pio Rasulo (Stigliano, 1926 – Taranto, 17 dicembre 2019) ci ha lasciati. Un anno tormentato dalle sofferenze procurate della pandemia, che ha sconvolto la vita di tutti e ancora non lascia intravedere uno spiraglio di luce, che ci lasci credere nel miracolo di un ritorno a una vita normale. L’emergenza sanitaria, peraltro, ha reso impossibile rendere omaggio in modo degno alla memoria di una persona meravigliosa quale fu Pio Rasulo, che ben meritò per il suo impegno lungo, intenso e proficuo nel campo letterario e culturale.
Ad un anno dalla scomparsa, però, sento il dovere di ricordarlo anche in nome del diuturno e profondo rapporto di affetto e di stima che ci ha legati. Pio, infatti, oltre a una cultura mai ostentata, ha annoverato tra le sue molte doti una umiltà non ipocrita, che permise a me, ancora giovane studente, di stabilire rapporti amichevoli con lui che era già figura autorevole nel campo delle patrie lettere. Nell’arco di oltre mezzo secolo la nostra frequentazione è stata per me molto arricchente e gratificante. Negli ultimi anni, diradandosi le occasioni dei nostri incontri a Stigliano, erano diventate più fitte le conversazioni telefoniche tra Parma e Taranto, durante le quali condividemmo i momenti banali della quotidianità e gli eventi dolorosi che ci ulcerarono l’anima.
Proverò ora a ricordarlo tracciandone un rapido profilo e soffermandomi in particolare sul suo libro più famoso. Per quanto molto lacunoso, spero che esso possa servire comunque allo scopo.
Come molti sanno, Pio Rasulo ha svolto una lunga ed eclettica attività. Già insegnante elementare in Calabria, fu nominato direttore didattico di ruolo come vincitore di concorso ordinario nel 1965 e nel 1972 operò come direttore delle scuole italiane in Benelux. Nel 1973 è assistente ordinario di Letteratura italiana all’Università di Salerno e nel 1976/77 è professore incaricato di Estetica all’Università di Lecce. Tre anni dopo un’importante missione culturale in Medio Oriente lo vede impegnato in Libano, Giordania, Irak e Cipro. Divenuto titolare della cattedra di Estetica nel 1982 nell’Università della città salentina, pubblica il bel saggio L’estetica di Mario Pagano.
Nel 1992 fu insignito dal Presidente della Repubblica della medaglia d’oro come benemerito della Cultura e dell’Arte. Un riconoscimento meritato, perché il professor Rasulo portò alto il nome di Stigliano in Lucania-Basilicata e della Lucania-Basilicata in Italia. Già nel 1954 aveva pubblicato una prima silloge poetica, I canti del Basento, e il saggio Cultura e società del Mezzogiorno. Queste due opere rivelarono un profondo attaccamento dell’autore alla sua terra e il suo forte interesse per i problemi del Sud, che furono poi il fil rouge che attraversò l’intera sua opera poetica, narrativa e saggistica.
Ma per molti il nome di Pio Rasulo è associato a un libro in particolare, La lunga notte della civetta, che riscosse subito un notevole successo di critica e di pubblico. Di difficile definizione riguardo al genere letterario, ancora oggi è un libro anche a me molto caro e non ha perso il suo fascino da quando lo lessi, subito dopo la pubblicazione, negli ormai lontani anni degli esilî collegiali.
Il libro fu pubblicato nel 1962 e riedito nell’anno successivo con una nuova illustrazione di copertina realizzata da Carlo Levi, che molto lo aveva apprezzato. L’ultima pubblicazione per “Il Coscile”, con un saggio finale, a mo’ di postfazione, di Antonio Basile, risale al 2009 e testimonia che 45 anni dopo era ancora avvertita l’esigenza di leggere un libro che, pur in un contesto storico e sociale profondamente mutato, conservava intatte la sua freschezza e la sua attualità.
Ciò è dovuto anche al fatto che Pio Rasulo non si limita a raccontare con maestria il passato con il suo patrimonio irrinunciabile di memorie e di tradizioni, ma rappresenta efficacemente il lento e difficile affacciarsi del mondo contadino alla ribalta della storia. Significative in proposito si rivelano le pagine dedicate alla vita della popolazione dei Sassi di Matera, che assumono i caratteri esemplari di uno stupendo reportage.
Ma “La lunga notte della civetta” non propone solo una elegiaca e suggestiva rievocazione del tempo che fu. La sua forza sta nella capacità dell’autore di comprendere e narrare i mutamenti prodotti nel Mezzogiorno dall’irruzione caotica e contraddittoria di sacrosante istanze sociali e di ingannevoli miti, che accompagnarono l’inizio del boom economico e della modernità.
In conclusione, l’opera, e in ciò è a mio modesto parere la ragione prima della sua originalità, propone un’armonica fusione di storia e leggenda, mito e poesia, aneddotica e cronaca. Attraverso la vivida rappresentazione di fatti, persone e luoghi cari all’autore, diventa uno straordinario viaggio nella memoria, capace però di offrire validi suggerimenti per una corretta comprensione del presente.