Don Paolo Scavone a Gannano
Don Paolo Scavone a Gannano

Parma – Sono tanti i ricordi, che sempre più fanno ressa nella mente, dei miei primi anni di vita, quando ero solo un scricciolo dal moto perpetuo, liberamente scorrazzante con una nutrita banda di ragazzotti miei pari negli spazi sterminati che si aprivano tra Piazza Marconi, la Villa, il Carvutto, Largo Castello e sconfinavano verso San Vincenzo e la Chiazza. Fra i volti di tante persone adulte, che spesso aggallano alla superficie della memoria, perché accompagnarono gli anni della mia fanciullezza, vi sono quelli di non pochi sacerdoti, che allora costituivano la ben nutrita schiera del clero secolare e religioso di Stigliano. Parroco della Chiesa Madre era don Rocco Longo, l’arciprete col tricorno dal fiocco rosso di monsignore. Era già anziano quando io ero ragazzo e nei decenni precedenti aveva ricoperto incarichi importanti e delicati nella diocesi di Tricarico, guidata dallo storico Vescovo Raffaello Delle Nocche. Ebbe come suoi vicari prima don Mimì Zito di Calciano, che a Stigliano apparve e scomparve come una meteora, poi l’amabile don Alberto Distefano di San Mauro Forte, che invece a Stigliano rimase fino alla morte, avvenuta nel 2000.

La parrocchia di Sant’Antonio, invece, nel 1952 fu affidata a don Giacomo Polidoro, un giovane e brillante sacerdote scomparso nel 1972 all’età di 44 anni, che succedette a don Vincenzo De Chiara, quando questi fu eletto vescovo della storica diocesi di Mileto in Calabria. Legata alla Parrocchia di Sant’Antonio era la Cappella dei Sacri Cuori, di cui si prendeva cura Don Vincenzo Alderisio. Qui negli anni della scuola elementare io ebbi modo di servire messa, rigorosamente in latino secondo il rito preconciliare, benché non avessi ancora imparato a declinare il “rosa-rosae”. Ma potei anche godere del privilegio di suonare più volte le campane, arrampicandomi avventurosamente con due intrepidi compagni su una malferma scala di legno, che dal soppalco dov’era situato l’organo portava al campanile. Frequentai anche la Cappella di San Vincenzo, appartenente alla Chiesa Madre, che raggiungevo, piccolissimo, mano nella mano con don Rocco Aspromonte, un anziano prete dalla statura omerica. Così almeno appariva ai miei occhi di bambino di circa quattro anni. Abitava proprio a fianco a casa mia e mi voleva un gran bene. Amava farmi giocare tenendomi sulle ginocchia e mi conduceva con sé nella sua chiesetta, dove mi capitava spesso di addormentarmi, mentre si teneva la novena in onore di San Vincenzo. A conciliare il mio sonno di bambino non so se contribuivano di più i primi tiepidi soffi primaverili o le monotone cantilene delle vecchiette oranti.

Scomparso don Rocco, gli succedette come responsabile della Cappella di San Vincenzo, recentemente riportata in vita grazie a un sapiente lavoro di restauro dopo essere stata chiusa per molti anni, don Paolo Scavone, di cui il 30 maggio 2022 ricorre il 40° anniversario della morte. Don Paolo apparteneva, come la quasi totalità dei preti di quel tempo, a un’umile famiglia di contadini. Nacque a Stigliano il 6 febbraio 1918 da Leonardo e da Lucia Mele e fu registrato con il doppio nome di Francesco e Paolo. Il piccolo Paolo, dopo aver frequentato la scuola elementare in paese, seppure con qualche anno di ritardo entrò in Seminario a Potenza. Seguì così le orme di molti figli di contadini e di piccoli artigiani, cui per le gravi ristrettezze economiche della famiglia toccava in sorte di entrare in Seminario per ricevere un minimo d’istruzione. Lo stesso Vincenzo De Chiara, destinato a diventare amatissimo Vescovo, poco prima della Grande Guerra fu accompagnato nel Seminario di Tricarico dal padre Giovanni a dorso di mulo. Quelli vissuti dal giovane Scavone in seminario erano tempi grami, che furono resi ancora più bui dall’imperversare della seconda guerra mondiale. Nel ricordarli in maniera anche colorita, agli amici più intimi don Paolo non mancava di confidare che le scarse vettovaglie, inviate a costo grandi sacrifici e privazioni dai genitori con mezzi di fortuna, per evitare che i seminaristi finissero come i figli e i nipoti del Conte Ugolino nella pisana Torre della Muda, una volta giunte in Seminario, quasi mai raggiungevano i legittimi destinatari. Se ne perdevano misteriosamente le tracce. Ma non c’è da meravigliarsi più di tanto, perché, si sa, le vie del Signore sono infinite. Ancora di più dovevano esserlo in quei tristi tempi in cui non c’era più religione … neppure nei Seminari!

Ordinato sacerdote il 22 luglio 1945, don Paolo tornò nella sua Stigliano e a metà degli anni ’50 gli fu affidata la cura delle anime di Gannano e di Serra di Croce. Erano, queste, due delle molte borgate sorte nell’agro di Stigliano con la Riforma Fondiaria. Molto popolose, per qualche tempo conobbero una vivace vita sociale ed economica, prima che l’esodo dalla campagna verso le fabbriche del Nord dell’Italia o dell’estero non le immiserisse progressivamente, fino a desertificarle quasi del tutto. Il buon sacerdote vi si recava puntualmente ogni domenica, oltre che nelle feste comandate o in occasione di battesimi, matrimoni e funerali. Solitamente era accompagnato con una campagnola da un autista dell’Ente Riforma, ma non di rado si serviva di qualche passaggio di fortuna o vi arrivava con qualche amico, che amava tenergli compagnia. Pina Cofano, un’insegnante pugliese, che a Stigliano conobbe e sposò Cenzino Mancino, uno degli amici intimi di don Paolo, nel suo libro autobiografico “Ciò che resta”, ha voluto ricordare a distanza di anni un viaggio domenicale in campagna, che la vide per certi versi protagonista suo malgrado. Finita la messa, infatti, a sorpresa fu invitata da don Paolo a parlare su un tema libero a un gruppo numeroso di giovani, che ascoltarono con curiosità e interesse. Erano preparati evidentemente a quel tipo di improvvisazioni del loro eccentrico parroco.

Al ritorno, invece, la messa fu celebrata a Serra di Croce nell’unica stanza che nei giorni feriali fungeva da aula e la domenica si trasformava in cappella. Ma forse è il caso di lasciare la parola alla diretta testimone, per sapere ciò che accadde:
«Don Paolo mi presentò una campana senza batacchio, abbastanza pesante. Sicuramente l’aveva presa da qualche convento abbandonato della zona. La piazzò al centro della stradina, che portava all’ingresso della scuola e mi disse consegnandomi un bastone arrotondato in cima: “Suona, vedrai che i fedeli verranno”. Felice come una Pasqua, o meglio, come un garibaldino, andava su e giù per la stradina accogliendo i contadini che via via arrivavano dalle varie case coloniche sparse nelle campagne vicine. Insieme lo aiutavano a preparare la scuola in modo che fosse una chiesa». Don Paolo, insomma, era una persona mite, umile, affabile. Era anche naturalmente incline alla convivialità. Che s’intrattenesse con i ragazzi o si trovasse con persone adulte, in campagna o in paese, puntualmente nei momenti topici amava tirare fuori la sua inseparabile armonica a bocca per rendere l’atmosfera più festosa, riempendo l’aria con le note di qualche piacevole motivetto musicale.

In altre parole, stava bene con tutti grazie alla sua giovialità e alla sua saggezza che gli permettevano di capire come va il mondo. O meglio, come andava in quegli anni del secolo scorso. Lo “stravagante” curato di Gannano riuscì a stabilire rapporti di viva cordialità e di reciproca stima anche con Pasquale Davide, da cui magari qualche suo confratello si sarebbe tenuto prudentemente a distanza. Davide, noto Paskàlә lә Néuәrә, godeva fama, infatti, di essere un grande e rispettato sciamano in tutta la regione. Non a caso davanti alla sua casa colonica, tra Gannano e la Bufolara, era permanentemente parcheggiato un numero impressionante di macchine. Erano i clienti che dai paesi vicini venivano dal mago per risolvere i loro problemi altrimenti irrisolvibili: malattie da curare, matrimoni da fare o da disfare, malocchi da togliere o da indirizzare. Pasquale aveva sempre voluto bene a don Paolo e lo stimava sinceramente. Ma la sua considerazione era aumentata a dismisura in un’occasione particolare, che gli aveva consentito di ammirarne l’intraprendenza e il coraggio. Fu quando a Leonardo, il padre di don Paolo, era stato rubato da uno zingaro un mulo e il giovane prete non aveva esitato a mettersi sulle tracce del ladro, aveva recuperato la refurtiva e assicurato il malfattore nelle mani della giustizia.

Il famoso “masciaro” manifestava la sua benevolenza al parroco di Gannano in mille modi. Uno dei tanti era di regalargli una piccola damigiana di vino ogni volta che incignava la botte. Improvvisamente, però, per ben due anni consecutivi ciò non avvenne. Don Paolo naturalmente non ne chiese mai la ragione. Fu Pasquale stesso che, sentendosi quasi in colpa, spontaneamente un giorno si scusò con l’amico prete, dicendo che purtroppo le ultime annate erano state cattive e non aveva potuto mandargli il suo vino novello per la messa. Ma la donazione non tardò a riprendere con regolarità. Quasi miracolosamente. Quello stesso anno la vendemmia fu resa impossibile da una devastante grandinata e il masciaro interpetrò l’evento calamitoso come un segnale inequivocabile di invito al ravvedimento. Alla prima buona raccolta, perciò, fu ripristinata la vecchia buona consuetudine. Chi non conosceva bene don Paolo e si lasciava ingannare dalle apparenze, poteva anche equivocare e scambiare la sua semplicità, mitezza, bonomia, per semplicioneria, ingenuità, sprovvedutezza. La sua evidente trasandatezza nel vestire poteva anche essere considerata il sintomo di una certa aridità interiore. Ma così non era. Lo dimostrano l’affetto e la stima di cui lo ricolmavano, e tuttora lo ricolmano a distanza di decenni, gli alunni e gli amici, ammirati del suo grande spessore umano. Finanche tra i confratelli, che ne riconoscevano la non ostentata ma solida preparazione teologica, la considerazione era altissima e unanime. Può sembrare cosa ovvia, ma chi conosce bene il mondo clericale, sa che non è per niente una cosa scontata. Anzi.

Don Paolo era anche attento ai temi che riguardavano la vita della Chiesa in quel periodo di tempo attraversato da una profonda ansia di rinnovamento, che spinse poi papa Giovanni XXIII a indire il Concilio Vaticano II. A tale proposito il buon curato mostrava una grande chiarezza di idee e una sorprendente apertura mentale. Lucia Pasciucco, che un giorno lo interpellò riguardo al ruolo delle suore nell’organizzazione del sistema ecclesiale, lo ha considerato addirittura un “prete di frontiera”. Un giorno, infatti, era rimasta piacevolmente stupita di sentirgli dire senza alcuna esitazione che riteneva giusto che le suore celebrassero messa. Spiegava così il suo pensiero: “Le donne, nate per essere madri, sono anche più portate per la missione, e nelle terre lontane dovrebbero poter fare tutto ciò che fanno i preti. Saprebbero fare meglio!”. Chi più di altri può comunque venire in soccorso e dare un notevole contributo per arricchire in maniera significativa il profilo di don Paolo è sicuramente Nicola Chiechi, il quale ricorda tra l’altro che il suo amico sacerdote prestava grande attenzione al fenomeno delle missioni. Anzi, già quando era seminarista, aveva sognato di diventare missionario, ma ne fu poi dissuaso dai superiori per le sue cagionevoli condizioni di salute. Questo fa capire anche le ragioni della sua grande devozione per Santa Teresa di Lisieux, patrona dei Missionari.

Nicola Chiechi arrivò dalla natia Puglia a Stigliano a metà degli anni ’60, per dirigere in una fase molto delicata il locale Ufficio del Dazio, che aveva competenza anche per Aliano, Cirigliano e Gorgoglione. Nell’impegnativo incarico mostrò subito rare doti di competenza e di rettitudine. Nei primi tempi, però, incontrò non poche difficoltà di ambientamento, sia perché non era abituato al clima rigido degli inverni stiglianesi, sia perché non gli fu agevole adattarsi agli usi e ai costumi locali. Gli parve anche di essere capitato in un mondo chiuso e diffidente, ma presto i timori svanirono e poté prendere atto del grande senso di ospitalità e di accoglienza della comunità stiglianese In ciò fu aiutato dal fatto che, essendo un cattolico fervente, frequentò da subito la Chiesa locale. Trovò così un punto di riferimento in don Paolo, che anche in quel frangente mostrò di essere, per dirla con l’antico poeta greco Pindaro, “xeìnois thaumastòs patér”, un mirabile padre per i forestieri. Lasciamo allo stesso Nicola l’incarico di ricordare e di raccontare:

«Una delle persone che si rivelò subito disponibile nei miei confronti fu don Paolo Scavone, allora sacerdote preposto presso la borgata di Gannano. Era un vero “curato di campagna”, con quella particolare e povera zimarra, che sarebbe certamente piaciuta a Giovanni Maria Vianney e a don Tonino Bello. Don Paolo fu per me un amico sincero, sempre vicino nei momenti di bisogno con un messaggio di speranza e fiducia. Ricordo che la piacevole compagnia di don Paolo era richiesta da una miriade di giovani, che gli volevano tanto bene. Egli si intratteneva assiduamente con Giovanni Lacetera, Antonio Cirillo, Salvatore Capalbi, che diventarono naturalmente anche miei amici. Don Paolo trovava sempre uno spazio per coinvolgerci nella recita del Santo Rosario, con una particolare coroncina che aveva portato da Lourdes e che teneva costantemente tra le sue mani».

Nacque, insomma, un’amicizia solida, destinata a durare per sempre. Diventarono inseparabili e anche a Nicola toccò più volte di fare compagnia all’amico, accompagnandolo con il suo Maggiolino rosso in varie peregrinazioni anche fuori regione. Si recavano spesso a Tricarico e a Tursi per incontrare gli amatissimi vescovi Bruno Pelaia e Secondo Tagliabue, che era peraltro il padre spirituale di don Paolo. Ma la meta abituale era naturalmente Gannano. «Ricordo – racconta sempre Nicola – che in quella chiesa di campagna, sempre ben curata dall’umile sacerdote e ora purtroppo fatiscente, vi era una bella statua di Maria Ausiliatrice, ai piedi della quale don Paolo immancabilmente sostava in profonda meditazione. Questi, che poteva a prima vista sembrare un sacerdote superficiale, era invece molto profondo e aveva una particolare capacità nel far conoscere la vita dei Santi. E così, grazie a don Paolo, incominciai ad innamorarmi di don Bosco e della sua adorata Mamma Margherita, di Domenico Savio e della bella figura di Maria Ausiliatrice».

Io, per mio conto, non ho avuto la fortuna di frequentare e di conoscere da vicino don Paolo, ma ne custodisco due ricordi certo irrilevanti, ma a me molto cari. Fu lui a confessarmi, quando feci la prima comunione. Eravamo oltre una cinquantina di bambini irrequieti, assiepati nella Cappella dei Sacri Cuori sotto lo sguardo vigile di suor Pia e di suor Renata, due mitiche figure dell’Asilo di Stigliano negli anni ’50. A loro due era affidato l’improbo compito di tenerci tranquilli e di smistarci per la confessione verso uno dei quattro o cinque sacerdoti strategicamente posizionati nei diversi angoli della Cappella. Ognuno in cuor suo sperava, ma qualcuno ebbe l’ardire di dirlo ad alta voce, di essere confessato da don Paolo. Non so se per pura simpatia o perché lo si riteneva meno esigente e severo. Sta di fatto che, quando fui dirottato verso di lui per confessarmi, urlai silenziosamente dentro di me tutta la mia esultanza, come se avessi segnato un gran goal in una delle tante infuocate partitelle a pallone nella Villa.

Quando poi finalmente, dopo un lunghissimo interminabile tempo, verso sera uscimmo tutti fuori sul sagrato, don Paolo molto semplicemente mi chiese se ero contento. Io gli risposi con ingenuo candore che temevo di non avergli detto tutto in confessione e di avere involontariamente omesso qualcosa. Lui non replicò, ma mi scompigliò i capelli con la sua manona e mi diede un buffetto sulla guancia, mentre don Giacomo non poté trattenere una franca e sonora risata di fronte alle mie irragionevoli ansie.
Nel 1980, in occasione delle elezioni regionali, incontrai don Paolo a casa sua, dove per desiderio di suo fratello Cecchino avevo accompagnato un candidato, l’ingegner Lisanti, che ci stava a cuore e che desideravamo salutasse e conoscesse il buon prete. Benché non fosse troppo avanzato in età, don Paolo era ormai un po’ malandato, perché, egli diceva, “il cuore si è messo a fare scherzi”. Ci accolse con la sua ben nota sobria cordialità, invitandoci a sedere intorno al piccolo focolare, dove con fare distratto continuò a tracciare geroglifici nella cenere.

Lui e l’ospite cominciarono a conversare amabilmente e scoprirono con piacevole sorpresa che avevano entrambi lo stesso doppio nome. Nacque così, d’incanto, un fitto meraviglioso dialogo tra loro su san Francesco da Paola. Rimasi incantato a sentirli raccontare della figura e dei miracoli dell’Eremita calabrese, che nel ‘400 aveva fondato l’Ordine dei Minimi e che era stato poi proclamato “Celeste Patrono dei Marittimi d’Italia”. Mentre i due dialogavano amichevolmente, come se si conoscessero da sempre, io mi sorpresi a pensare che Stigliano doveva essere davvero orgogliosa di quel singolare oscuro curato di campagna, umile e buono, che da molti non era apprezzato per come avrebbe meritato. Ricordo che per un attimo la mia mente fu attraversata da una stramba idea: immaginai che, se si fosse mai eretto un giorno il monumento al “Prete Ignoto”, mi sarebbe piaciuto che avesse i lineamenti e le fattezze di don Paolo Scavone.