di Angelo Colangelo
Stigliano, che pure è in Italia, a differenza dell’Italia non è terra di santi, poeti e navigatori.
È scontato che non sia terra di navigatori ed è presto detto il perché. Si tratta di un paese di montagna e, più precisamente, del paese più alto in tutta la provincia di Matera. In questi paesi, appollaiati sui monti e rimasti isolati per saecula saeculorum a causa della mancanza delle strade di collegamento, il mare era o ignoto o percepito ai confini del mondo. Un’entità quasi metafisica.
Ne è prova evidente il fatto che quasi tutti gli stiglianesi che nacquero, come me, nell’immediato secondo dopoguerra, videro per la prima volta il mare intorno ai diciotto anni e difficilmente riuscirono a stabilire con esso un rapporto confidenziale. Molti dei loro nonni o dei loro padri erano morti senza averlo mai visto, il mare. Al massimo, qualcuno lo sbirciò quando, chiamato a fare il soldato, fu obbligato a salire su per la penisola in tutta la sua lunghezza. O lo conobbe quando, spinto dalla miseria, fu costretto a imbarcarsi a Napoli per raggiungere la lontana America, da dove magari non avrebbe mai più fatto ritorno.
Non è neppure difficile immaginare che molti di coloro i quali fecero la rara esperienza di vedere il mare, ne ricavarono la stessa impressione del montanaro siciliano sceso per la prima volta a Palermo, di cui narra Gianni Riotta nel suo gustoso racconto “Sasà tra il vero e il falso”. Andò più o meno così. Quando, appena tornato in paese, un amico gli chiese una sua impressione personale sulla spiaggia di Montello, il montanaro non esitò a rispondere in maniera asciutta e disarmante: «Compare, mezza sarma i terrenu seminato a buttane». Insomma, al paesano, che per la prima volta era calato per caso dai monti verso il mare, non era parso di vedere altro che un piccolo e insignificante pezzo di terra ricoperto di ragazze discinte e spregiudicate.
Se non è terra di navigatori, men che meno Stigliano può essere considerato un paese di santi, perché la santità, si sa, richiede tante e tali virtù, che finisce per rappresentare una categoria molto sparuta. In ogni tempo e in ogni luogo. Si può, invece, tranquillamente dire che Stigliano è stato ed è nel complesso un paese di brava e buona gente. Questo, sì, è senz’altro vero e chiedo che mi si creda sulla parola.
Parlare, dunque, di santi stiglianesi non è il caso. Assolutamente no… Anche se, a pensarci bene, non si può sottacere che c’è una persona che da tempo vive in odore di santità almeno presso tutti quelli che ebbero la fortuna di conoscerlo sia nel suo paese natale che in terra di Calabria, dove trascorse una parte significativa della sua vita. È monsignor Vincenzo De Chiara. Fu per molti anni vescovo della storica diocesi di Mileto nella seconda metà del secolo scorso e fu un luminoso esempio di umiltà e di bontà, due doti davvero preziose, che gli furono da tutti riconosciute e gli meritarono la definizione di “Pastor bonus in populo”.
In ogni caso, sempre sul tema della santità, mi è capitato di porre a me stesso un interrogativo e di chiedermi: potrà mai diventare il mio paese un paese di qualche santo ufficialmente riconosciuto da Santa Madre Chiesa? Alla peregrina domanda, finora rimasta inevasa, io, pur dichiarandomi un pessimista ad oltranza, continuo a rispondere che è bene non mettere limiti agli imperscrutabili disegni della Divina Provvidenza e restare in speranzosa attesa.
Ora, però, lasciamo in pace i santi, perché è giunto il momento di occuparci dei poeti. Va detto subito che una labile traccia di poeti Stigliano riesce pure a mostrarla. Certamente non è paragonabile ad Herat, la città afghana evocata da Khaled Hosseini nel suo meraviglioso romanzo “Mille splendidi soli”, dove «non si poteva stendere una gamba senza dare una pedata in culo a un poeta». Piuttosto, se proprio si vuole essere pignoli e si vuol dire la verità fino in fondo, nel mio paese foltissima è la schiera degli aspiranti poeti o dei sedicenti tali.
Diciamo pure, in altre parole, che molti a Stigliano hanno amato e amano flirtare con le Muse, ma la loro passione in molti casi è risultata e risulta poco o male corrisposta. Insomma, per farla breve, si può concludere lapidariamente: versi tanti, poesia poca. A conferma che anche in àmbito poetico può valere il noto versetto evangelico con cui Matteo allude alla ricompensa eterna: “Multi sunt vocati, pauci vero electi”. Anche per questo sarebbe pura follia azzardare nomi di poeti stiglianesi. Avventurarsi nel terreno minato delle citazioni sarebbe impresa improvvida e da parte mia atto di puro autolesionismo.
Eppure, un’eccezione intendo farla, anzi due. Ben sicuro che a nessuno verrà lo sghiribizzo di protestare. Mi permetto di menzionare per primo, ma solo per ragioni anagrafiche, Nicola Berardi, un contadino intelligente ed eccentrico, vissuto a cavallo fra l’800 e il ‘900 e dotato di una buona cultura acquisita da autodidatta. A lui, denigrato in vita e riabilitato post mortem, la comunità stiglianese non ha mancato di rendere omaggio, seppure tardivo, intestandogli una strada.
Di Nicola Berardi ci sono pervenute in tutto sedici poesie, che propongono qua e là evidenti tracce autobiografiche. Il primo componimento, scritto fra il 1915 e il 1918, è un sonetto intitolato “A mia madre”. Fu ritrovato su una cartolina raffigurante una Madonna in lacrime e inviata alla madre dal fronte di guerra.