Nei momenti più felici della sua attività poetica, cui si dedicava nella casetta di campagna sul monte Serra ereditata dal padre Giosuè, Nicola riesce comunque a imitare in maniera non passiva ma originale, e talora con risultati apprezzabili, i suoi numerosi e autorevoli modelli letterari italiani, ma anche greci e latini, letti evidentemente in buone traduzioni.
L’altro poeta, che non posso fare a meno di menzionare, è il caro Padre Vincenzo Cilento, umanista famoso nel mondo per i suoi studi su Plotino, che molto furono apprezzati anche da Benedetto Croce, della cui casa il barnabita stiglianese fu assiduo frequentatore. Nel poco tempo libero che gli lasciavano gli assidui e severi studi del mondo classico e le incombenze del ministero sacerdotale e dell’insegnamento, egli non disdegnò di ritemprare e dilettare lo spirito, soffermandosi in compagnia delle Muse.

Ci ha lasciato una sessantina di raffinate e classicheggianti liriche, alcune delle quali mostrano davvero un’eccelsa cifra poetica. Rimaste a lungo inedite, esse furono rinvenute dopo la morte dell’autore e pubblicate postume nel prezioso volumetto “Ore di poesia”, curato con competenza e amore da due suoi allievi, Gerardo Sangermano ed Emma Del Basso. Anche a Padre Cilento, che per la gigantesca statura intellettuale e morale avrebbe senz’altro meritato una maggiore considerazione da parte dei suoi ignari o distratti concittadini, è stata intitolata una via nel paese natale.
Stigliano comunque, seppure povera di poeti e priva del tutto di navigatori nonché di santi, ha una strana peculiarità, che credo sia sfuggita in passato e ancora oggi sfugga all’attenzione dei più: l’essere stata una terra fertile di magistrati fin dai primi anni dell’Unità d’Italia. Forse ancora prima, chissà.

Ecco alcuni nomi di giudici, che a vario titolo possono essere considerati stiglianesi. Sono i primi che mi vengono in mente e li cito in ordine rigorosamente anagrafico: Filippo Laviani e i suoi figli Casto e Filippo, Felice Dipersia, Franco Calbi, i fratelli Antonio e Vito Tucci, Vincenzo Autera, Pierfilippo Laviani, Isidoro Rizzo, Nicola Dinisi. Stranezza delle stranezze, ben sette degli undici togati, che ho sopra nominato, hanno abitato, entro uno spazio non più grande di un centinaio di metri, in via Fratelli Bandiera, la strada che dall’alto della Villa si lancia con un tuffo temerario a raggiungere il Piano.

Premetto che io qui sorvolerò su gran parte di loro e mi limiterò a raccontare brevemente solo di pochi, ossia di coloro ai quali mi legano ricordi strettamente personali. Non perché, beninteso, abbia avuto a che fare con la giustizia …!
Allora, non seguendo altro criterio se non quello imposto dalle obbliganti ragioni del cuore, non posso che iniziare da lui. Da colui con il quale, fin da quando si era ragazzi, ho avuto un rapporto di calda amicizia, che si è mantenuta intatta nel corso di almeno sette decenni, violando le pur ferree leggi dello spazio e del tempo. Voglio intendere che si tratta di un’amicizia mai scalfita dalla lontananza o corrosa dalla ruggine degli anni.

In verità, Pierfilippo Laviani, è di lui che sto dicendo, è nato a Napoli nel 1947. Ma nella prima parte della sua vita è vissuto tra la città partenopea, dove allora risiedeva, e Stigliano, il paese della famiglia paterna. Qui nel palazzo avito, che ogn’ora abita in alcuni periodi dell’anno, trascorreva le feste natalizie e le lunghe vacanze estive. Più che lunghe sarebbe meglio dire interminabili, perché iniziavano a giugno e cessavano sostanzialmente solo nei primi giorni di novembre.

La cosa, per la sua lampante e sorprendente anomalia, richiede una doverosa spiegazione. Pierfilippo frequentò le scuole elementari a Napoli nel prestigioso istituto privato “Giovanna d’Arco” di via Ventaglieri, dove l’anno scolastico non iniziava il 1° ottobre, a quel tempo data canonica per l’apertura delle scuole statali, ma spesso dopo i morti. Perché non proseguissero oltremisura gli ozi estivi, il padre Casto si premurò che il figlioletto seguisse come uditore le lezioni a Stigliano. Ciò avvenne nella classe che io frequentavo e, perciò, seppure per periodi brevi con Pierfilippo fummo atipici compagni di scuola elementare.

Mi pare perfino superfluo aggiungere che a cementare la nostra amicizia, però, fu il fatto di essere assidui compagni di giochi. Indimenticabili restano le quotidiane e interminabili partite a pallone, durante le quali tutti noi ragazzi amavamo attribuirci il nome dei nostri idoli sportivi. Così io, in quanto tifoso della Viola già all’età di undici anni, diventavo magicamente Giuliano Sarti, “il portiere di ghiaccio”, se giocavo in porta, o il mitico Miguel Montuori, se il mio ruolo era in attacco; Pierfilippo a sua volta, il quale non poteva che essere tifoso del “Ciuccio”, a seconda del ruolo in cui si alternava, si appellava Ottavio Bugatti o Luis Vinicio, detto ‘o lione.

Un altro ricordo meraviglioso è legato a un viaggio singolare che a me e al mio amico, all’età di cinque o sei anni, capitò di fare insieme su una tipica vettura dell’epoca nei giorni in cui si vendemmiava nella vigna di famiglia. Intendo dire della sua famiglia. La vigna, da tempo scomparsa, si trovava nei pressi dello spazio che ancora ci si ostina pateticamente a chiamare campo sportivo, suscitando non poca ilarità.

Noi, che eravamo ancora degli scriccioli, vi fummo condotti in groppa a un asino: io in una cesta, Pierfilippo nell’altra e al centro, sul basto, il sapiente guidatore, il simpaticissimo e da noi molto amato zio Minguccio Cifarelli, uomo buono e generoso quanto altri mai e inarrivabile enologo della pregevole cantina dei Laviani, per quanto fosse sprovvisto di titolo accademico. Quel viaggio fu entusiasmante e lo ricordo come una immersione fantastica in un mondo incantato, che mi fece gustare il dolce sapore della festa della vendemmia.

Casa Calbi-Palazzo Laviani

Oggi di quei lontani anni non resta che fare memoria, rievocandoli con struggente nostalgia insieme con altri amici del bel tempo che fu sui gradini esterni della casa del compare Peppe Calbi, il milanese, che da tempo sembra fare da avamposto a palazzo Laviani. Per oltre sei decenni la mitica scala, ora triste e solitaria per undici mesi all’anno, ha ascoltato, rassegnata e comprensiva, le nostre storie infantili e giovanili, che si dipanavano attraverso appassionate conversazioni, le quali si protraevano talvolta fino a tarda notte. Né mai diede, la scala, segni di impazienza se, come spesso capitava, le nostre narrazioni diventavano ripetitive e noiose. Ancora oggi, benché accada molto più raramente, continua ad ascoltare, imperterrita e divertita, i racconti di noi che, divenuti anziani, amiamo rifugiarci voluttuosamente nel mondo rigenerante del passato.

In età adulta la professione di magistrato indirizzò Pierfilippo a Campobasso prima e poi a Roma, dove ha concluso la sua ragguardevole carriera come Procuratore Aggiunto. Nel lungo e brillante percorso professionale si è occupato di molti importanti processi riguardanti la criminalità organizzata, le grandi evasioni fiscali e i reati tributari, il famoso delitto dell’Olgiata, il giallo sulla scomparsa di Ettore Majorana, e di molti altri che hanno visto coinvolti famosi personaggi della politica, dell’economia e dello spettacolo. Ha anche avuto incarichi gravosi e delicati come, ad esempio, quello di organizzatore del Centro Intercettazioni (CICE). Comunque, né durante né dopo la sua lunga e intensa attività professionale ha voluto mai interrompere la frequentazione di Stigliano, paese cui sente di appartenere.
Per completezza di informazione devo aggiungere che Pierfilippo, dopo aver coltivato a lungo l’idea di fare il medico, decise di iscriversi alla facoltà di giurisprudenza e finì così per entrare in magistratura, consolidando un’antica tradizione familiare.

Magistrato fu, infatti, il nonno Filippo, che frequentò la III e la IV classe al Regio Ginnasio “Duni” di Matera tra il 1882 e il 1884, cioè negli anni stessi in cui in quel liceo insegnava Giovanni Pascoli. Lì ebbe inizio la sua formazione culturale ed umana, che lo avrebbe portato ad essere un giudice dotato di grande finezza intellettuale e di profondi valori morali.
Doti che furono esaltate poi dai figli Casto e Filippo. Il primo nacque a Ferrandina nel 1904 e trascorse i primi anni della sua vita fra Stigliano e Trani, dove il genitore operava. Rimasto orfano di padre in tenera età, continuò gli studi a Potenza e a Napoli, grazie alle amorevoli cure della madre Giovanna Rago e dello zio Francesco Laviani.

Dopo la laurea iniziò la sua carriera di magistrato come pretore a Napoli, a Cortona, Civitella del Tronto, Buccino. Fu poi giudice nei tribunali di Potenza e di Salerno, prima di tornare a Napoli alla conclusione della seconda guerra mondiale. Consigliere e poi Presidente di Corte di Appello, concluse la sua splendida carriera di magistrato di raffinata dottrina giuridica e di rara integrità morale come Primo Presidente Onorario della Corte di Cassazione.