L’austera figura di Casto Laviani, per me e per tutti “don Casto”, mi fu nota fin da bambino, ma mi divenne ancora più familiare a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, quando il grande giudice dimorò più spesso e per lunghi periodi a Stigliano, dopo il suo collocamento a riposo e dopo la morte del fratello maggiore Pietro, che fu per oltre venti anni il medico apprezzato, rispettato e amato della mia famiglia. In quel periodo ebbi il privilegio di avere con don Casto frequenti, amabili e per me arricchenti conversazioni.Non meno stimato di don Casto era suo fratello Filippo, di due anni più piccolo, per il quale i familiari decisero di rinunciare al nome di battesimo Angelo, per fargli assumere il venerando nome del padre, che aveva perduto all’età di otto anni.
Anche Filippo diventò un illustre magistrato e fu conosciuto da tutti come don Filippo. Dopo gli studi a Potenza e a Napoli, entrò presto in magistratura e una delle sue prime sedi fu Pieve di Cadore, dove si trovò a operare nei tragici anni della seconda guerra mondiale. Non esitò, allora, a partecipare alla guerra di Liberazione e per questo ricevette l’attestato di partigiano dal Comitato di Liberazione dell’Alta Italia. Successivamente fu pretore a Capri, dove – non mancò di raccontarmi – i suoi frugali pasti in una modesta trattoria erano quotidianamente allietati dalle melodiche canzoni di un musicista, che si faceva solitamente accompagnare da un bambino vivace e simpatico. Quel ragazzino si chiamava Giuseppe Faiella e dopo alcuni anni sarebbe diventato semplicemente Peppino di Capri.
Don Filippo fu poi giudice di tribunale a Catanzaro e di Corte di Appello a Potenza, dove rimase per tutto il resto della sua carriera, che concluse come Commissario per la liquidazione degli usi civici della Basilicata.Non lontano dal palazzo dei Laviani, sempre in via Fratelli Bandiera, che io mi diverto a indicare come la via dei giudici, è la casa della famiglia Tucci, dal cui seno spuntarono ben due magistrati. I miei ricordi personali sono legati soprattutto al maggiore di loro, Antonio, nato a Stigliano nel 1939, che fu Procuratore a Novara e Crema e terminò la carriera come Presidente del Tribunale di Piacenza.
Nel tempo in cui fu Sostituto Procuratore a Milano, lo incontrai casualmente davanti al Palazzo di Giustizia. Ero con il mio compare Peppe e con i miei cugini Franco e Mimmo e fu lui stesso che, avendoci riconosciuti, si avvicinò e si fermò volentieri a scambiare quattro chiacchiere. Ci invitò poi ad accompagnarlo alla macchina parcheggiata non lontano. Ci fermammo davanti a una ‘500 sgarrupata e non riuscimmo a dissimulare un moto di forte sorpresa. Anzi, Franco, impertinente e provocatore di professione, gli disse che quella schifezza di oggetto, che con tutta la buona volontà era difficile riconoscere come macchina, non era degna di lui. Ma Antonio non esitò a spiegare che, per quanto potesse servire, cioè poco o nulla, era una elementare forma di precauzione. L’intento era di passare inosservato, perché in quel tormentato periodo a Milano e in molte altre città imperversava la violenza dei gruppi extraparlamentari rossi e neri, che avevano già preso di mira alcuni giudici.
Ma il ricordo più bello che mi lega ad Antonio Tucci, peraltro grande amico di mio cugino Vito Capalbi, è molto più recente e risale a sette o otto anni fa. Me ne stavo tranquillamente a casa, quando mi raggiunse una telefonata di Rocco Lasaponara. Con i toni spicci e simpaticamente autoritari, di cui egli solo è capace quando vuole essere assecondato nelle sue richieste senza concedere alcuna possibilità di replica, m’ingiunse di passare subito dal suo ufficio di Assicurazione, perché c’era una persona che desiderava salutarmi. Pronunziai l’inevitabile “Obbedisco!” e mi precipitai, senza chiedere nient’altro.
Mi ritrovai, poco dopo, di fronte il giudice stiglianese, che non vedevo da molti anni.
Ci salutammo cordialmente e demmo vita a una lunga e amabile conversazione. Volle anche complimentarsi con me per la pubblicazione di due miei saggi, che egli aveva letto e che lo avevano molto interessato. Poi mi fece dono di un ricordo che molto mi emozionò. Lo conservo ancora gelosamente e mi piace condividerlo con i miei pochi lettori.
Mi disse che, a dispetto del lunghissimo tempo che era passato, un’eternità, ricordava perfettamente il negozio di mio padre, che egli fin da piccolo frequentava assiduamente più volte al giorno. «In particolare – mi raccontò – ci andavo di corsa, tutto felice, ogni volta che con i miei piccoli risparmi avevo accumulato la somma necessaria per acquistare un libro. I miei libri preferiti da ragazzo erano i romanzi di avventura di Emilio Salgari e ne acquistai davvero tanti.
Li divoravo e talvolta, alla fine della lettura, mi lasciavo trascinare dall’entusiasmo e mi spingevo a costruire nel balcone di casa, che si affaccia su piazza Monumento, una capanna di cartoni, che tuo padre stesso si premurava di conservarmi. E così, chiuso in uno spazio angusto, volavo sulle ali della fantasia e ripercorrevo le avventure degli eroi salgariani. Divenuto più grande, vi comprai anche il famoso libro di Carlo Levi, di cui tu ti sei molto occupato. Sono davvero belli – concluse il giudice Tucci – i ricordi che mi legano a tuo padre e al suo negozio, che spesso mi ritorna in mente con tanta nostalgia».
A questo punto il mio racconto può ritenersi terminato e mi affretto, dunque, alla conclusione, anche perché voglio evitare di annoiarvi ulteriormente. Prima, però, concedetemi di manifestare un’idea, o meglio di svelare un sogno, che coltivo nel mio intimo da qualche tempo: mi piacerebbe vedere intitolata la strada, che ora porta il nome di Attilio e Emilio Bandiera, ai fratelli Casto e Filippo Laviani. Senza nessuna intenzione, credetemi, né di offuscare il nome dei fratelli veneziani giustiziati nel 1844 dopo il fallimento della loro temeraria impresa in Calabria contro il regno borbonico, né di offendere la memoria storica risorgimentale.
Dico solo che, se nell’estate appena trascorsa un ineffabile esponente del Governo Draghi ha preteso di intitolare un parco pubblico di Latina al fratello del Capo del Fascismo, cancellando i nomi di due eroici magistrati, sarebbe di grande significato che nella odonomastica stiglianese una strada ricordasse due grandi giudici, i quali nel secolo passato hanno dato grande lustro alla nostra comunità.
Sarebbe bello che il nome di Casto e Filippo Laviani figurasse accanto a quello di Vincenzo Cilento, Giovanni Cassino e altri in un Pantheon ideale, che accolga le personalità illustri di Stigliano e aiuti a tramandarne la memoria alle future generazioni.
Le foto appartengono a Rocco Derosa e Angelo Colangelo