Tutti e due erano emigrati all’estero. Lei nel 1960, con il marito Vincenzo, aveva preso la strada di Besançon, in Francia; lui, pochi anni dopo, con la moglie Felicetta se ne era andato a Francoforte, in Germania. Ma i due fratelli, Aronne e Laura, puntualmente si incontravano ogni anno a Stigliano. Non rinunciavano mai a tornarci d’estate. Lo stesso faceva l’altra sorella Lucia, emigrata a Savona. Ve li spingeva il legame sempre forte con il paese. Li calamitava l’amore per mamma Rosa, che era rimasta a vivere da sola in paese, da quando i figli se ne erano andati via. Lontano, troppo lontano, perché la sfiorasse il pensiero di seguirli. «Del resto, – pensava Rosa – i figli si sono fatti una famiglia, sono andati via per cercare un lavoro e un avvenire sereno e hanno tutto il diritto di starsene da soli. A me tocca solo di aspettarli, nella mia casa, qui al paese».
E da sola li aspettava, li aspettava nella sua casa alla Serra. Finalmente arrivavano. Ed era una gran festa, la festa del ritorno. Ma per tutti loro agosto era il mese più corto dell’anno. I giorni volavano via veloci e subito arrivava la fine. Ripartiti i figli, l’anziana donna non faceva altro che contare i giorni mancanti all’arrivo dell’estate successiva. E sempre aveva l’impressione che i mesi si srotolassero molto, troppo lentamente. A poco serviva il conforto di qualche lettera, che pure aspettava con ansia e che arrivava ora dalla Francia, ora dalla Germania, ora da Savona. Rosa Capalbi, che tutti chiamavano “l’acquaiola”, non poteva non stravedere per i suoi tre figli, Aronne, Lucia e Laura, che aveva cresciuti con amore e coraggio. Sobbarcandosi a enormi sacrifici, aveva fatto da madre e da padre, dopoché il marito Francesco era stato chiamato alle armi. Aronne aveva allora dieci anni, Lucia solo due e Laura era uno scricciolo di circa un anno, cui era toccato l’amaro destino di non conoscere suo padre.
Francesco Morgese, come tantissimi altri giovani del paese, all’improvviso era stato costretto a lasciare la famiglia e il suo lavoro di scalpellino e a partire per la guerra. Lui aveva trentadue anni, quando nel 1940 Mussolini, mosso dalla sua mania di grandezza, pianificò un proditorio e folle attacco contro la incolpevole Grecia. Francesco fu destinato ad Agrinion, città storica dell’Etolia, dove era sistemato il Quartier generale dell’VIII Corpo di Armata.
Per qualche tempo riuscì a fare avere notizie di sé, rassicurando la moglie Rosa sulle sue condizioni di salute. Terminato il conflitto nell’aprile dell’anno successivo, grazie all’intervento dei tedeschi deciso da Hitler, iniziò il periodo dell’occupazione della Grecia, che fu spartita fra tedeschi, bulgari e italiani. A questi toccò quasi l’intera Grecia continentale. Fu allora che Francesco ebbe l’occasione di tornare per qualche giorno a Stigliano, godendo di una breve licenza. Poi il ritorno in Grecia, dove contro l’occupazione straniera era intanto iniziata una strenua resistenza da parte dei partigiani.
Grazie al benevolo atteggiamento dei greci verso gli italiani, che non usarono mai metodi di repressione violenta, il giovane soldato italiano aveva avuto la fortuna di conoscere già da tempo una famiglia, che spesso lo ospitava e lo aiutava come poteva. Di ciò Francesco riuscì a informare la famiglia, anche se non fece mai il nome dei suoi benefattori nelle poche lettere che per qualche tempo riuscì a inviare. L’ultima sua missiva fu una cartolina indirizzata alla piccola Laura, l’ultimogenita, e portava la data del 26 giugno 1943. Poi, d’un tratto, più nulla.
La corrispondenza si era interrotta bruscamente, perché la guerra infame se lo era portato via tra le montagne occupate dai partigiani. Ma la sua morte rimase avvolta nel mistero. Alla vedova fu solo notificata la notizia della scomparsa. Né, finita la guerra, fu possibile saperne di più. Francesco, come milioni di giovani che furono vittime della follia della seconda guerra mondiale, era svanito nel nulla, destinato a vivere solo nel ricordo dolente dei parenti e degli amici.