Nicola Colangelo davanti al suo negozio con in braccio il nipote Vito Marchese
Nicola Colangelo davanti al suo negozio con in braccio il nipote Vito Marchese

Mio padre Nicola operò e diede impulso alla sua piccola attività commerciale nel decennio successivo alla seconda guerra mondiale, quando Stigliano viveva una situazione sociale ed economica complessa e per certi versi contraddittoria.


Era, infatti, un periodo di profondi mutamenti nell’agricoltura in seguito alla legge di Riforma Fondiaria, la cosiddetta legge stralcio, parzialmente finanziata dal Piano Marshall. Con essa fu se non proprio soppiantato, quanto meno ridimensionato il latifondo e le estese proprietà terriere delle grandi famiglie Del Monte, Porcellini, Vitale, Formica furono distribuite fra circa 300 assegnatari, che da braccianti furono così trasformati in piccoli imprenditori agricoli.

Si pensava, purtroppo erroneamente, di avere finalmente posto termine a una questione annosa, che molto aveva pesato sul mancato sviluppo economico del Sud e che aveva rappresentato una delle cause primarie del brigantaggio postunitario. Un problema antico, l’assegnazione delle terre, che richiedeva ormai una soluzione urgente e non più differibile, come testimoniavano i gravi fatti di sangue accaduti nel 1949 a Melfi e a Montescaglioso.

In ogni caso a Stigliano furono insediati gli uffici dell’Ente Riforma nel palazzo Salomone in Calata Magenta, dove operò una nutrita schiera di impiegati, tecnici e autisti, provenienti anche da altri paesi. Raggiungevano quotidianamente con i mezzi di trasporto dell’Ente, perlopiù campagnole e leoncini, i luoghi dove stavano sorgendo le borgate di Serra di Croce, Santa Maria Calvera, Caputo, Gannano. Al mattino presto nel negozio paterno era un via vai continuo di gente, che si riforniva di sigarette e di altro prima di dirigersi in campagna.

La situazione, comunque, a Stigliano come negli altri paesi lucani restava drammatica, perché persistevano ampie sacche di disoccupazione in una popolazione che in un quarto di secolo era aumentata in maniera consistente, passando dagli 8275 abitanti del censimento speciale del 1936 ai 9925 abitanti del 1961.


A prestare fede a una fonte molto attendibile, questi dati demografici non sarebbero neppure reali, perché furono ritoccati artificiosamente al ribasso. Si volle evitare, infatti, che la popolazione ufficiale superasse la soglia dei diecimila abitanti, perché ciò avrebbe comportato l’istituzione di una terza farmacia, penalizzando fortemente i titolari delle due farmacie già esistenti.

Nello stesso tempo, l’artigianato soffriva delle grandi difficoltà economiche generali, che erano documentate anche dalla mancata circolazione di moneta corrente e dall’uso patologico delle cambiali per i pagamenti. Molti erano i piccoli artigiani, -fabbri, maniscalchi, sellai, calzolai-, che erano costretti a una vita grama. C’erano addirittura persone che, non avendo neppure una bottega o un laboratorio, svolgevano nella propria abitazione la doppia attività di sarto e di barbiere.

Come, ad esempio, il buon Salvatore Agneta, che non mancava di fornire a domicilio le sue prestazioni di figaro ad alcuni clienti di riguardo. D’estate, ad esempio, suo cliente abituale era Michelino Ciruzzi, uno stimato insegnante di matematica e fisica nel prestigioso Istituto barnabitico “Alla Querce” di Firenze, che trascorreva sempre le vacanze estive nella sua Stigliano.
Un caldo pomeriggio di agosto zio Salvatore bussò puntualissimo al civettuolo portoncino del professore ed entrò con la borsa degli attrezzi necessari al taglio dei capelli. Era da poco terminata la lezione, cui ogni giorno ero obbligato per tutto il mese di agosto ad evitare che mi arrugginissi durante le ferie. Raccattati freneticamente libro e quaderni, stavo scappando via, impaziente di raggiungere gli amici che sapevo in trepida attesa per dare vita all’immancabile partita di pallone.

Mi capitò allora di assistere ad una incredibile scenetta, che mi lasciò a bocca aperta e che ancora oggi mi fa sorridere, solo a pensarci. Appena fu apparso sulla soglia, zio Salvatore salutò, pronunciando con tono serio e con voce stentorea “Viva il re!”. Io lo guardai incredulo, pensando che il poveretto fosse stato vittima di un improvviso colpo di sole in quel torrido agosto. Ma non feci in tempo a dare corpo al mio sospetto, perché alle spalle fui raggiunto da un “Evviva!” non meno squillante, pronunciato solennemente dall’illustre professore in risposta al suo amico.

Riuscii a sapere poi che liberale l’uno, il professore, socialista l’altro, il figaro-sarto, erano comunque entrambi ferventi sostenitori della monarchia sabauda, esautorata una quindicina di anni prima. E, come tali, ogni volta che s’incontravano in privato, non esitavano a omaggiare Umberto II, il re di maggio, il quale aveva evitato una guerra civile e favorito la pace nazionale, lasciando l’Italia dopo l’infausto esito del referendum istituzionale.

Ma è il momento di porre fine alle divagazioni, perché si corre il rischio di perdersi nel labirinto dei ricordi. Riprendendo così il filo del discorso, devo aggiungere che, oltre alla nascita dell’Ente Riforma, in quegli anni altre novità produssero a Stigliano profondi cambiamenti riguardanti l’arredo urbano e il contesto sociale.

Si provvedeva, infatti, alla pavimentazione di molte strade e finalmente, dopo una lunghissima attesa, si stava realizzando la costruzione di un edificio scolastico, capace di accogliere le numerose classi della scuola elementare ancora disseminate in numerose e inadeguate abitazioni private.
La mancanza di efficienti strutture scolastiche era una piaga che affliggeva la stragrande maggioranza dei comuni lucani e ostacolava la lotta all’analfabetismo, che era stata iniziata negli anni Venti dall’ANIMI, l’Associane Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia, animata in Lucania dall’impegno assiduo, appassionato e competente dell’Ispettore Domiziano Viola.

Esistevano a quel tempo nei 126 paesi della regione solo quattro edifici scolastici e la situazione non era migliorata, anzi risultava essere ancora peggiore dopo la guerra. Stigliano naturalmente non faceva eccezione e, perciò, fu accolta con favore la decisione di costruire l’edificio scolastico di via Roma.

Negli stessi anni Cinquanta, inoltre, si intervenne per risolvere un altro grave problema, che riguardava le insoddisfacenti condizioni igieniche della quasi totalità delle abitazioni. Non poche famiglie, infatti, vivevano ancora in promiscuità con asini, muli e altri animali in sottani malsani e del tutto privi degli essenziali servizi igienici. In moltissime case mancavano l’acqua e la corrente elettrica ed alcune famiglie incominciarono a dotarsene.

Mio padre, allora, non perse tempo ad organizzarsi per la vendita del materiale occorrente per quel tipo di lavori. Così nel giro di poco tempo la rivendita di sali e tabacchi diventò un vero e proprio emporio. Vi si poteva acquistare di tutto. Piccole cose di uso quotidiano quali il DDT, l’insetticida allora ancora in uso per combattere la malaria, o il sidol, si vendevano ancora sfusi come il sale, lo zucchero, il caffè, il cacao. Con il materiale vario di cancelleria e libri non mancavano, inoltre, articoli più rari come cappelli, rullini fotografici, lampadari.

La gestione dell’attività, che durante la guerra era stata portata avanti a fatica da mia nonna, una vedova di guerra analfabeta, passò nelle mani di mio padre, quando lei compì sessantacinque anni. Fu necessario per il passaggio ufficiale un atto di donazione presso il Compartimento dei Monopoli di Bari, che prevedeva l’obbligo di firma da parte di mia nonna, che, come ho detto, non sapeva scrivere.

Io frequentavo la quarta elementare e mi fu affidato il compito di insegnarle a fare la firma. Presi e guidai la sua mano tremante per ore e ore ogni giorno. Per circa due mesi. Nei momenti di maggiore sconforto lei scoppiava in pianto e temeva di non farcela. Io cercavo di farle coraggio, dicendole che era fortunata ad avere un nome e un cognome molto brevi e chiamarsi Santo Rosa. “Figuriamoci – le ripetevo – se ti fosse chiamata Fornabaio Mariacarmela o Pasciucco Mariantonietta”. Riuscivo così a farla sorridere e a riprendere in mano la penna di buona lena. Alla fine del supplizio quotidiano, riconoscente, mi regalava cinque o dieci lire. Quando l’avventura si concluse felicemente, al ritorno da Bari volle regalarmi cento lire in carta moneta. Non avevo mai visto tanti soldi tutti in una volta e, a pensarci bene, furono i primi soldi che guadagnai con le lezioni private!

Mi è capitato spesso nel corso degli anni di incontrare persone che conservavano un vivido ricordo del negozio paterno, grazie magari a un piccolo ma significativo dettaglio.
Un magistrato, arrivato dal nord per una breve visita al paese dopo alcuni anni di assenza, mi confidò che da ragazzo spendeva tutti i suoi risparmi da mio padre, per fare incetta dei libri di Salgari, che molto lo appassionavano. Li divorava e poi sulle ali dell’immaginazione si slanciava in frenetiche scorribande sulle orme dei suoi eroi prediletti. Non aveva neppure dimenticato che spesso mio padre, che gli voleva bene, gli faceva leggere gratuitamente qualche fumetto.
Un operaio in pensione mi raccontava di aver acquistato una magnifica cucina a legna “Becchi”, che aveva pagato un po’ alla volta. Aveva saldato il conto solo dopo molti anni, quando ormai si era trasferito da tempo a Varese.

Un’anziana donna ricordava di aver comprato in occasione del suo matrimonio i confetti e tutto l’occorrente per preparare in casa i liquori che avrebbero allietato la festa nuziale. Anche i biglietti d’invito uscirono dal negozio della “Villa”, perché, non essendoci a quel tempo tipografie, mio padre provvedeva a scrivere gli inviti personalmente con la sua vecchia Olivetti.

Uno stiglianese trapiantato a Torino, un tassista in pensione, nel nostro ultimo incontro, avvenuto qualche anno fa, mi confidò amabilmente: “Quando ero un giovane squattrinato, zio Nicola, comprensivo e generoso, non si rifiutava mai di rifornirmi di sigarette a credenza”. E, dopo aver aggiunto celiando ma non troppo: “Credo che ancora gli devo pagare un paio di pacchetti di esportazioni senza filtro”, mi invitò a prendere un aperitivo a titolo di parziale risarcimento.

Solo una quindicina di giorni fa, infine, da Roma mi è stato inviato un lungo e affettuoso messaggio da un caro amico d’infanzia che, commentando un mio precedente racconto, tra l’altro scriveva: “Se potessimo dischiudere, solo per un attimo, la porta della bottega di tuo padre, che ho varcato innumerevoli volte per le Giubek di zio Pietro! Non vado oltre e tu ne capisci la ragione …”.
Leggere queste semplici ma toccanti parole mi ha procurato una grande emozione e mi ha fatto capire che il negozio di Nicola Colangelo davvero era il cuore della Villa e per questo è rimasto nel cuore di molti.

(3 continua)