Il Natale 2019 si preannuncia, come il precedente, con una preziosa strenna di Antonio Martino. Si tratta di un bel volumetto di sette racconti, impreziosito peraltro da un commovente disegno in quarta di copertina, in cui Anna Martino, undicenne pronipote dell’autore, lavorando di fantasia, ha riprodotto il calesse e l’asinello del bisnonno. Con la sua pubblicazione i figli Titina, Paola e Giovanni De Maria hanno voluto “ricordare il padre a chi l’ha conosciuto e presentarlo a coloro che non l’hanno conosciuto”.
Io, rispetto alle due categorie di destinatari del libro, mi colloco in un immaginario Limbo. Non ho avuto, infatti, il privilegio di conoscere personalmente Domenico De Maria, l’autore della raccolta “Taras ed altri racconti” (RCE Multimedia, Napoli, 2019). Epperò, non mi sento di far parte della lista di coloro ai quali De Maria risulta del tutto ignoto. Mi spiego meglio. Ho conosciuto “don Mimì”, avvocato ed oratore la cui fama aveva presto travalicato i ristretti confini comunali, prima attraverso i discorsi di un mio zio, che a Stigliano amava seguirne i comizi nelle accese campagne elettorali a cavallo fra gli anni ’40 e ’50 e a me ragazzo ne decantava la strabiliante oratoria, da cui era letteralmente affascinato.
Ne ho poi avuto molto più tardi una conoscenza meno vaga tramite gli scritti e i discorsi di Antonio Martino che, da quando l’ho conosciuto tramite il compianto Gilberto Marselli, mi fa dono di amichevoli e per me arricchenti conversazioni telefoniche. Ora la figura di De Maria si è delineata in modo più chiaro nella mia mente grazie a questi racconti ancora freschi di stampa, introdotti dalle sapienti note di Antonio Martino, che vi ha inserito anche una sua irrituale e gustosa postfazione. Così egli, già ricordato come principe del foro e valentissimo oratore, mi si è ora mostrato nella incognita veste di scrittore, rivelando rare e sorprendenti doti narrative, che furono apprezzate a suo tempo dallo stesso Carlo Levi, come testimonia il messaggio autografo del 1950 riprodotto in copertina.
Don Mimì, così era chiamato affettuosamente da tutti, nei suoi racconti non solo appare un osservatore attento dei caratteri, dei costumi, dell’ambiente, ma mostra una notevole forza espressiva attraverso una scrittura intensa e incisiva. Le storie da lui raccontate, perciò, risultano palpitanti di vita e artisticamente vivi si mostrano i protagonisti.
Nennella e suor Giuseppina, ad esempio, condannate ad una esistenza di miseria e di dolore, finiscono per diventare significative metafore delle condizioni sociali ed economiche dei paesi lucani nel lungo periodo storico che va dagli anni post-unitari alla metà del secolo successivo. E con loro i contadini e i galantuomini, i cui rapporti segnarono per lunghi decenni la storia del Mezzogiorno.
In conclusione, si parva licet componere magnis, mi sia concesso di dire che la lettura dei racconti di De Maria ha richiamato alla mia mente due numi della narrativa europea, Giovanni Verga e Guy de Maupassant. Sicché, grazie ai miracoli che solo la letteratura sa compiere, ho visto balenare dinanzi ai miei occhi le immagini di Accettura e di Tricarico insieme con quelle di Aci Trezza. Ma ho anche visto magicamente sovrapporsi i volti di Cristina Tagliaboschi e Boule de suif e confondersi alcuni immortali personaggi dello scrittore francese con gli attori di “Un processo a loro”, il sapido e per certi versi incredibile racconto dell’avvocato tricaricese, nato ad Accettura nel 1905.